di Antonio Tedesco
Quando gli uomini parlano di Bellezza non intendono precisamente una qualità, come si suppone, ma un effetto.
E.A. Poe, Filosofia della Composizione
Poe era un teorico che
rifletteva a fondo sulla propria arte. I suoi scritti narrativi e poetici si
potrebbero leggere come dimostrazioni pratiche delle sue teorie letterarie.
Compiutamente espresse in alcuni famosi saggi, a partire dal fondamentale Filosofia della composizione dove,
analizzando i processi creativi del suo poemetto Il corvo, enuncia i
principi generali sui quali si fonda la sua opera.
Gli
assassinii della Rue Morgue, pubblicato da Edgar Allan Poe nel
1841, è convenzionalmente considerato il racconto capostipite della letteratura
poliziesca. Il testo narrativo è preceduto da una articolata riflessione sui
meccanismi deduttivi che una mente umana ben predisposta può mettere in atto.
Poe si sofferma in particolare sul concetto di analisi, inteso come capacità di
scomporre un oggetto considerato nei singoli elementi che lo costituiscono.
Analizzare, a partire da una attenta osservazione, significa, in definitiva,
dedurre e interpretare. Ne consegue che le facoltà analitiche, per Poe, hanno
molto più a che fare con la capacità di immaginazione che con la fredda
razionalità dell’ingegno.
Tutta l’opera dello scrittore americano è
strettamente coerente a tali principi. Il genere letterario è visto principalmente
come veicolo attraverso il quale ottenere gli effetti desiderati. Il
poliziesco, il mistero, il terrore, sono procedimenti compositivi che
necessitano di tali effetti. Quelli in cui si condensa, per Poe, la bellezza
dell’opera. A tal fine non va troppo per il sottile. Tralasciando l’angoscia, a
volte insostenibile, che emana dai suoi Racconti
del mistero e del terrore, il procedimento da lui perseguito è già evidente
nella meticolosità, quasi ai limiti della pedanteria, che sostiene l’impalcatura
narrativa dei suoi racconti polizieschi.
“Ogni intreccio degno del
nome deve essere elaborato fino al suo dénouement prima che si tenti la stesura
di qualche parte. Solo tenendo sempre presente il dénouement si può dare a un
intreccio il suo necessario aspetto di coerenza, o connessione causale, facendo
in modo che in ogni punto gli avvenimenti e soprattutto il tono seguano lo
sviluppo del disegno”, scrive in Filosofia della composizione.
Auguste Dupin,
l’ineffabile personaggio protagonista di Gli assassinii della Rue Morgue,
è, in questo senso, un doppio del suo autore. L’investigatore parigino (il
racconto è ambientato nella capitale francese) scompone gli elementi che
costituiscono un delitto come Poe, nei suoi scritti critici e saggistici,
seziona e analizza quelli che costituiscono l’opera letteraria. Quest’ultima,
dunque, nella concezione di Poe, sembra apparentarsi al delitto stesso. Non a
caso l’autore, con la sua invenzione (ma probabilmente non immaginava di aver
inaugurato un “genere” che tanti sviluppi avrebbe avuto in futuro) ha
affrancato il crimine dal triste e sterile squallore della cronaca elevandolo a
dignità estetica. Il delitto avvenuto in circostanze misteriose e inspiegabili
viene nobilitato dal raffinato magistero deduttivo cui l’investigatore lo
sottopone. Illuminandolo in ogni minimo dettaglio, evidenziando sfumature di
cui probabilmente il colpevole stesso non aveva consapevolezza. Con lo stesso
metodo trasposto in Dupin, Poe costruisce la sua opera letteraria. Una sorta di
simbolico delitto che mira a scuotere nel profondo l’anima del lettore. Solo
che nel suo caso, forse per effetto di una latente schizofrenia, convergono in
lui le figure del detective e dell’assassino. Il secondo colpisce in maniera spietata
generando inquietudine e angoscia, ottenendo l’effetto con ogni mezzo,
anche subdolo e cinico (tetre dimore in rovina, seppellimenti prematuri,
risvegli dalle tombe ecc.). Il primo (il critico-detective) spiega
minuziosamente come e perché lo fa, trasformando quello che sembrava un tuffo
nell’incubo più pauroso e insostenibile in una controllatissima e ben oleata
macchina letteraria che, attraverso l’eccesso, vuole rappresentare un’idea
personale e perturbante di “verità”. Una verità che per essere riconosciuta
necessita di una rappresentazione smodata. Frutto di esperienze di vita spesso
tragiche e di una personalità complessa, contorta, afflitta dall’ansia di
riconoscimento sociale, dove si genera una contraddizione solo apparente. Si potrebbe dire, nel suo caso, che la soluzione del delitto è nel delitto stesso.
Nel descrivere il modus
operandi con cui aveva composto Il corvo, Poe dice: “È
mia intenzione dimostrare che nessuna parte di essa fu dovuta al caso o
all’intuizione – che l’opera procedette, passo passo, al suo compimento con la
precisa e rigida conseguenza di un problema matematico”.
Gli
assassinii della Rue Morgue (ma anche l’altrettanto noto La
lettera rubata) è un racconto-paradigma. Traccia le coordinate della
figura dell’investigatore classico, tutto logica e deduzione, che troverà il
suo definitivo compimento nel personaggio di Sherlock Holmes di Arthur Conan
Doyle. Sia Auguste Dupin che Holmes sono a loro modo personalità simbolo di un
Ottocento positivista. Paladini della ragione e della logica, che utilizzano
con piena consapevolezza e metodo scientifico, per dissipare il mistero, o
quello che in apparenza si direbbe tale. Ma sono anche due figure letterarie
alle quali gli stessi autori, forse, non credevano fino in fondo. Di quel mistero,
reso il più possibile cupo e perturbante, Poe farà una sorta di marchio di
fabbrica. Con i suoi racconti detti
“del mistero e del terrore”, infatti, si sottrae ad ogni possibile soluzione
consolatoria. Rende ancor più oscuro l’enigma rimanendo sempre coerente con i
principi compositivi da lui enunciati. Conan Doyle, dal canto suo, rimarrà
prigioniero del suo stesso personaggio del quale, nonostante i tentativi
compiuti, non riuscirà mai a liberarsi. Il trionfo della “logica analitica e
deduttiva”, poteva richiedere qualche forzatura narrativa e, a volte, una
costruzione un po’ schematica. In Gli
assassinii della Rue Morgue Poe fa coesistere la raffinatezza intellettuale
con l’orrifica brutalità dei delitti. E non esita, allo scopo, a chiamare in
causa uno scimpanzé-acrobata. Piccoli eccessi
che costituiscono, forse, l’elemento di fascino un po’ datato che emana
dai suoi racconti, come da quelli di Conan Doyle, dove ciò che conta,
soprattutto, è l’atmosfera di cui sono pervasi e i personaggi che ne sono
protagonisti. A partire dagli stessi investigatori, che non mancano di
ambiguità e zone d’ombra che li rendono più interessanti, forse, dei casi
stessi che sono chiamati a risolvere.
Alla spietata e
“bruciante” freddezza dei meccanismi narrativi di Poe si contrappone il passo
in apparenza più confortevole, ma per altri versi altrettanto spietato e
chirurgico di Cechov. Anche il grande scrittore russo, pur non incasellabile in
una narrativa di genere, si è cimentato con il
“poliziesco”. Ma l’ha fatto a modo suo, con quell’ironia carica di
compassione che sembra essere agli antipodi dei principi e dei metodi enunciati
da Poe. Con il suo racconto Il fiammifero
svedese del 1884 (sottotitolo: Racconto poliziesco, appunto), Cechov
si pone come una sorta di anti Poe-Dupin. Ovvero, la negazione ironica,
grottesca e profondamente umana di ogni presunta “arte del delitto” e di ogni
sua arguta e sagace risoluzione. Il testo è essenzialmente una rappresentazione
“gogoliana” della società rurale russa di fine Ottocento. Dove creduloneria,
approssimazione, cialtroneria, indolenza, incompetenza e chi più ne ha più ne
metta, costituiscono lo spaccato di un contesto sociale ebbro, dall’animo
stordito e confuso. Dove si istruisce un’inchiesta su di un omicidio mai commesso
e si conducono indagini su ipotesi prive di ogni riscontro. Cechov mette in
campo una gustosa galleria di personaggi che, indagatori o indagati che siano,
sono sempre caratterizzati dal tratto comune dell’inettitudine profondamente radicata, quasi un marchio
socio-culturale. E dove sono delle donne
giovani, smaliziate e piacenti, ad avere gioco facile nel trarre vantaggio da
tale stato di fatto. Cechov mette in crisi i principi della fredda logica
analitica lasciando spazio a più realistici e concreti fattori di
improvvisazione e casualità. Quasi a gettare il seme di una contro storia del
poliziesco classico.
Se Gli assassinii
della Rue Morgue si potrebbe considerare come rappresentativo dell’intera
opera letteraria di Poe, sintesi di quell’immaginazione fantastica e
raziocinante a un tempo da lui stesso tanto scrupolosamente teorizzata, Il
fiammifero svedese di Cechov è invece il simbolo di quell’umanità tenera,
patetica, sperduta, che gira a vuoto non potendo mai trovare la soluzione
sperata o paventata. Perché l’immaginazione di cui si nutre è mossa da un
diverso tipo di “orrore dell’essere”, mai esibito spudoratamente, che si
insinua sottile, sotterraneo, quasi impercettibile. Stordito da una sorta di
ebbrezza esistenziale, annegata nell’oblio del vivere quotidiano. Se Poe, alla
ricerca ossessiva dell’effetto, idealizza fino all’esasperazione la
rappresentazione dei suoi personaggi, dall’implacabile e determinata freddezza
logica di Dupin, alle tormentate, inquietanti e fantasmatiche figure, specie femminili,
che appaiono nei suoi Racconti del Mistero e del Terrore, Cechov incide
a sua volta, con compassione, ma senza sconti, su uno spaccato umano e sociale
che muove la sua esistenza ai limiti del grottesco, che non può avvalersi di
vie di fuga mitico-fantastiche che ne elevino la condizione tragica a
dimensione dell’assoluto, ma sono, forse ben più tragicamente, condannate a
sguazzare per sempre nella loro appiccicosa e paludosa mediocrità. I personaggi
di Poe ci rapiscono e ci affascinano, quelli di Cechov ci toccano dentro e ci
commuovono.
Due diverse forme di
strategia narrativa, due diverse espressioni di intelligenza compositiva. Due
sguardi altrettanto acuti sul mondo.
Borges, che si è molto
occupato di letteratura poliziesca, non ha mai nascosto la sua predilezione per
Poe. In un saggio del 1967 afferma: “Poe non voleva che il
genere poliziesco fosse un genere realista, voleva che fosse un genere
intellettuale, un genere fantastico, se volete, ma un genere fantastico dell’intelligenza,
non soltanto dell’immaginazione; di entrambe le cose, naturalmente, ma
soprattutto dell’intelligenza”.
E forse sulla base di
questa riflessione, Borges stesso, nella sua qualità di scrittore “esploratore”
di generi letterari, farà un ulteriore passo avanti rispetto alla lezione di
Poe. Con Bioy Casares, dà vita al personaggio di don Isidro Parodi (Sei
problemi per don Isidro Parodi) dove il genere poliziesco diventa spunto
per un raffinato gioco metaletterario. Ma è in racconti come Il giardino dei
sentieri che si biforcano, compreso nella raccolta Finzioni, che si
fa ancor più evidente come il meccanismo del “giallo” si trasformi, in lui, in
un raffinato e sofisticato esercizio intellettuale, in cui l’inesorabile logica
dell’induzione e deduzione si incrocia, e viene messa in discussione, con il
dubbio metafisico. L’indagine si trasforma così in un processo di conoscenza
che conduce non a una soluzione definitiva, ma a un labirintico ricercare
muovendosi intorno a un centro che mai si riesce ad afferrare. La letteratura
di genere fa in questo modo il gran salto. E viene accolta a pieno titolo negli
infiniti e geometrici meandri della Biblioteca di Babele, della quale
Borges è stato il meticoloso, profetico e indiscusso cantore.
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