Qui non è Hollywood

 


di Roberta Verde

Quando il male penetra il quotidiano, infilandosi negli anfratti più intimi dell’esistenza, porta inevitabilmente all’autodistruzione. È un malessere profondo, difficile da decifrare, soprattutto se quell’esistenza è legata al mondo soffocante della provincia, in cui tutti osservano, tutti sanno e tutti giudicano. La miniserie Qui non è Hollywood è diretta dal pluripremiato regista Pippo Mezzapesa e si basa sul libro edito da Fandago Sarah. La ragazza di Avetrana di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni e sugli atti processuali che hanno portato alla condanna all’ergastolo, in via definitiva, di Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Inizialmente bloccata per un provvedimento del tribunale di Taranto nato a seguito del ricorso cautelare del sindaco del paese Antonio Iazzi, la serie indaga con stile intenso e mai giudicante la storia del delitto di Avetrana, uno dei crimini familiari più celebri della storia d’Italia. Sono proprio la dimensione della “celebrità” e l’atto ossessivo del guardare a dominare le fosche tinte del racconto che, articolandosi in più episodi, restituisce un quadro composito di questa tragica vicenda umana.

La storia è nota: il 26 giugno del 2010 sparisce da Avetrana (un paesino di poco più di 6.000 anime in provincia di Taranto) la quindicenne Sarah Scazzi. Dopo un mese di ricerche, il corpo della giovane viene rinvenuto in un pozzo nelle campagne del paese; sul collo, segni evidenti di strangolamento. Il caso ha avuto una grandissima risonanza mediatica il cui apice venne raggiunto la sera del 6 ottobre quando, durante la diretta nazionale della trasmissione Chi l’ha visto?, venne data la notizia del ritrovamento del corpo della quindicenne. Notizia data tramite telefono alla madre che era in collegamento proprio dalla casa delle due assassine. “Un delitto”, come scrissero alcune testate nei giorni seguenti, “perfetto non per chi l’ha commesso ma per la tv”, spettatrice impietosa di un crimine atroce. La chirurgica regia di Mezzapesa, che amalgama sapientemente il crudo realismo documentaristico con il linguaggio finzionale proprio del True Crime, si sofferma molto sull’interesse ossessivo della stampa, pronta a tutto pur di soddisfare i gusti di un pubblico “vampiresco” che sembra nutrirsi della narrazione del male. Ben presto Avetrana diventa meta del cosiddetto dark tourism, e la villetta dei Misseri si trasforma in un set macabro, oggetto di disturbanti attenzioni; per questo, a un certo punto, qualcuno scrive su muro perimetrale della casa Qui non è Hollywood. Questa lugubre tendenza dei media a interessarsi con particolare insistenza a fatti criminosi o che suscitano orrore e paura, nasce nel 1981 con la tragedia di Vermicino; in quel caso, furono addirittura le strazianti urla del bambino ad alimentare il senso di spettacolarità dell’evento. E dunque perché Sarah, con i suoi sogni adolescenziali, le sue speranze, la sua costante ricerca d’affetto non dovevano diventare materiale narrativo per i media? Ma come spesso accade, la vittima lascia presto la scena ai carnefici, più interessanti e “sfruttabili” in quanto carni ancora calde.

Mezzapesa, nei quattro episodi che compongono questa serie, mette molto bene in evidenza questo aspetto di morbosità mediale che rende i giornalisti e i visitatori dell’orrore ancora più mostruosi degli assassini stessi. Ogni episodio, dalla durata di circa 60 minuti, esplora la sfera personale dei protagonisti della vicenda: il primo si concentra su Sarah, figlia di una donna anaffettiva e per questo in costante ricerca di affetto e attenzione. Il desiderio più grande della giovane è quello di sparire per qualche giorno, in modo da attirare l’attenzione della famiglia e del paese su di sé. È un fiore in erba Sarah, fragile e insicura; una ragazzina che pende dalle labbra della cugina Sabrina, più grande e per questo suo punto di riferimento assoluto. L’apparente armonia tra le due ragazze viene però disturbata da Ivano, il bello del paese, che assume atteggiamenti contradditori verso le giovani. Sabrina è ossessionata da lui, lo vorrebbe per sé ma la sua insicurezza, dovuta a un fisico sgraziato, la rendono progressivamente invidiosa della bionda e graziosa cuginetta che appare invece, agli occhi del ragazzo, tenera e vulnerabile. Queste complesse dinamiche emotive vengono osservate dall’impenetrabile zia Cosima mentre zio Michele attende, silente, che le giornate scorrano tra i problemi al trattore e l’accudimento dei gatti con cui condivide il garage. Il primo episodio si concentra sui fatti che precedono il delitto e presenta diversi momenti fortemente simbolici: il più suggestivo è quando Sarah entra nella cucina dei Misseri durante una furente lite tra i tre e vede tutto l’ambiente, compresi i contendenti, completamente sporchi di una sostanza rossa, che altro non è che il sugo delle conserve. Facile intravedere in quel rosso il presagio di quello che avverrà in seguito. I tre episodi successivi affrontano, invece, la risposta dei Misseri al delitto: mentre Sabrina è lacerata tra un senso di colpa (?) sempre più crescente e la voglia di visibilità che le dà la stampa, zio Michele, animato da una religiosità popolare, si occupa e si “preoccupa” delle sorti del corpo e dell’anima di Sarah in un crescendo rossiniano di angoscia che trova la sua liberazione nella rivelazione del nascondiglio del corpo della nipote, riportato alla luce da una gru che solleva i pochi resti come se appartenessero a una divinità pagana. E poi c’è zia Cosima, la zia adorata di Sarah, quella che prepara i dolci buoni e cuce bambole di pezza. Personalità indecifrabile, forse brutale, Cosima è un’anima nera, colore lugubre che contraddistingue tutto il suo esiguo guardaroba.

Nonostante sia uno dei primi approcci di Mezzapesa al seriale (è da poco uscito il suo ultimo lavoro, la seconda stagione della serie targata Netflix La legge di Lidia Poët), Qui non è Hollywood è un prodotto ottimo il cui confezionamento, sospeso tra l’onirico e il realistico, si allontana molto dai classici standard italiani sul genere crime, troppo spesso “vittima” di scelte stilistiche ordinarie. Del resto, Mezzapesa già aveva abituato il suo pubblico a una narrazione scorrevole e attenta con Ti mangio il cuore (2022) dove aveva condotto un interessante lavoro sul corpo dell’attore, scolpito da un livido bianco e nero. Nella miniserie su Avetrana uno degli elementi nevralgici è proprio la corporeità, declinata nelle sue molteplici declinazioni. C’è l’assente corporeità della madre di Sarah, donna introversa e incapace di dimostrare affetto fisico; c’è l’acerba magrezza della quindicenne Sarah, la cui femminilità è esplicata solo dai lunghi e setosi capelli biondi; c’è l’eccessiva rotondità del fisico di Sabrina, corpo odiato e al contempo nutrito di prodotti ad alto contenuto calorico; e poi c’è l’imponente presenza fisica di Cosima, il cui corpo somiglia a un buco nero attorno a cui vorticano tutti i componenti della vicenda. Ma se la regia scava con professionalità e senza voyerismo la quotidiana umanità delle famiglie del dramma di Avetrana, indagando quindi più che il luogo l’anima dei protagonisti, sono soprattutto le magistrali interpretazioni degli attori a rendere questa serie una delle più intense e interessanti degli ultimi anni. Giulia Perulli ha dichiarato di essere ingrassata di oltre 20 kg per interpretare Sabrina: una trasformazione radicale, fisica e mentale che l’ha portata letteralmente a entrare nell’intimità della vera Sabrina. In una recente intervista ha dichiarato che “L’emotività del personaggio è uscita fuori proprio attraverso un corpo che non ti appartiene. Te lo porti a casa, ti guardi allo specchio, ci vai a dormire, ti ci svegli. Sedimenti un’emotività diversa. Ringrazio Pippo perché è un regista molto esigente, il che è un gran bene per un attore”. Ma il vero monumento della serie è Vanessa Scalera, un’attrice fuori da ogni possibile categoria: la sua è una prova magistrale, totalizzante, da Oscar. Il suo lavoro sul personaggio è stato un viaggio negli abissi di un essere umano complesso ed estremamente enigmatico, ferale nello sguardo e nell’anima. La Scalera, venuta alla ribalta negli eccentrici panni di Imma Tataranni, è un’interprete straordinaria, duttile, un caso quasi unico nel panorama attoriale italiano.

Inquietudine e solitudine sono le cifre narrative su cui si articola questa serie esclusiva Disney+: è la carne lattea di Sarah e quella olivastra dei Misseri a riempire il racconto di questo tragico dramma familiare. Non a caso è proprio la carne, materia umana e animale, a essere la vera protagonista del lavoro e anche del brano che accompagna i titoli di coda degli episodi, scritto appositamente per la serie dal rapper Marracash. La banalità del male, questo il titolo, si ispira al saggio di Hannah Arendt e racconta di quelle ombre che albergano in ognuno di noi e con cui bisogna, a un certo punto, fare i conti. Si invita, quindi alla visione di questo orrorifico pedinamento zavattiniano: ci si ritroverà tra le anse di un emozionante percorso umano, che restituisce ai protagonisti quello spessore che era stato completamente annullato dall’esiguità del linguaggio mediatico.

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