Sul tema dell’eutanasia, il giallo “In viaggio con la morte” di Gianluca Campagna. Edizioni Mursia Giungla Gialla. Esiste un diritto alla morte tanto quanto un diritto alla vita? Una delle domande che pone l’autore tra le pagine del romanzo
Di Gaia Cimbalo
Gianluca Campagna, con il suo ultimo romanzo noir, In
viaggio con la morte. Un cold case per il giornalista Gianni Colavita, edito
Mursia e facente parte della fortunata collana Giungla Gialla, commuove e
intrattiene, ma soprattutto fa riflettere: esiste un diritto alla morte tanto
quanto un diritto alla vita? E chi è disposto a garantircelo? Questa è la
domanda principale, ma non l’unica, che si pone e ci pone l’autore tra queste
pagine, cercando di restituirci la complessità di tale tematica, in una società
che cerca di semplificarlo ad ogni costo.
Il romanzo intreccia le vicende di due personaggi, antitetici
ma proprio per questo fondamentali per raccontare una storia di vita e di
morte. Uno dei due è Gianni Colavita, un giornalista sportivo, all’apice della
carriera e nel fiore degli anni, omen nomen, un cognome che parla di lui
e della sua attitudine alla vita.
Ma il passato bussa improvvisamente alla porta quando
Carla, vedova e malata terminale, gli chiede di accompagnarla durante il suo
ultimo viaggio per raggiungere la Svizzera, dove ha prenotato un suicidio
assistito. Carla è una vecchia conoscenza per Colavita, la madre di Luigi
Cataldi, un diciannovenne che dieci anni prima è rimasto vittima di una
sparatoria fuori da un bar di Roma. Il giornalista, al tempo precario e meno
affermato, aveva seguito il caso con passione, ma, nonostante ciò, non aveva
potuto impedirne l’archiviazione.
Carla è la coprotagonista di questo libro, una donna di
cinquantotto anni, ex insegnante di Filosofia, atea e cinica, che si rende
conto di avere perso le redini della sua vita: un mondo in macerie, specchio
del proprio vissuto, sola e alla ricerca di uno spettro di famiglia, della
possibilità di essere ancora parte di qualcosa. Provata dalla malattia e dalle
perdite dolorose, sente di non avere più obiettivi, tranne uno: prima di morire
vuole sapere cosa sia successo a suo figlio.
Una storia che si sviluppa su due archi cronologici
differenti: l’indagine di dieci anni prima, per cercare di scoprire cosa sia
successo davvero a Luigi e il presente, dove seguiamo i nostri protagonisti in
un viaggio on the road, alla ricerca del senso della vita e della morte.
Il setting di gran parte del romanzo è una Roma di periferia,
malfamata, sfondo perfetto per personaggi imperfetti, pasoliniani, lontani
dalle riviste patinate che di solito dipingono la Capitale. Una Roma di
prostitute, di criminali e di sicari, una città reale che chiede di essere
ritratta come tale, a partire dal linguaggio, in quanto il vero richiede degli
stili oltre che dei ritmi.
Ogni libro che rientri nella letteratura di genere deve
necessariamente confrontarsi con il tema della morte, ma in questo caso si
discute di morte, una morte cercata, voluta, che può restituire dignità
all’individuo, che nella malattia perde anche la possibilità di riconoscersi,
di vedersi.
La tematica dell’eutanasia e del suicidio assistito è
quanto mai attuale e l’autore ha spesso fatto notare come in Italia si faccia
maggiore difficoltà a dibattere di ciò senza doversi scontrare con antichi
titani, fra i quali anche la morale cattolica, che possono impedire di trattare
la questione abbracciando ulteriori punti di vista, per provare a restituire la
grande complessità che un tema come questo si porta con sé.
Ci è stato insegnato che la morte è la fine di tutto. A
volte, può esserlo. Ma la morte non è una dimensione altra alla vita, ma la
riguarda da vicino, ne è semplicemente l’ultima tappa. Accettarla come tale ci permette
di poterne vedere la bellezza, la liberazione che può portare con sé, la fine
delle sofferenze.
Ogni essere umano ha il diritto di decidere per sé, ha il
diritto di poter morire con dignità e il nostro stato lo dovrebbe garantire,
perché non c’è niente di più cristiano di permettere all’individuo di autodeterminarsi.
In questo ultimo periodo si è discusso molto di tale
tematica, anche grazie a Laura Santi e Martina Oppelli, che hanno contribuito a
riaccendere la conversazione riguardante tali pratiche.
In Italia il suicidio assistito, che prevede la
somministrazione del medicinale in modo autonomo e volontario dal soggetto
stesso, è consentito dal 2019, grazie alla sentenza 242/2019, ma non vi è una
legge specifica che lo regolamenti. Per poterne usufruire è necessario
rientrare in specifici parametri:
- la persona deve essere capace di autodeterminarsi,
- deve essere affetta da patologia irreversibile,
- la patologia deve essere fonte di sofferenze fisiche e
psicologiche che il soggetto reputa intollerabili,
- bisogna essere dipendenti da trattamenti di sostegno
vitale.
Ma risultare idonei a questi requisiti non è sempre
semplice: l’iter è spesso lungo e non privo di difficoltà.
L’eutanasia, che prevede invece che la dispensazione del
farmaco avvenga manu aliena da parte di un medico, nel nostro Paese è
illegale.
Laura Santi, giornalista perugina cinquantenne affetta da
sclerosi multipla, è morta il 21 luglio 2025 a Perugia, a casa sua, dopo
essersi autosomministrata il farmaco letale.
La giornalista ha ottenuto il via libera dalla sua ASL di
riferimento dopo due anni e mezzo dalla sua richiesta per l’accesso al suicidio
assistito e un lungo percorso giudiziario. Il farmaco e la strumentazione
necessaria sono stati forniti dall’azienda sanitaria, mentre il personale
medico e infermieristico che l’ha assistita nella procedura è stato attivato su
base volontaria. È la nona persona in Italia ad aver ottenuto il via libera al
suicidio assistito.
Differente è la storia di Martina Oppelli: architetta cinquantenne
triestina anche lei affetta da sclerosi multipla che, nonostante la ferocità
della sua malattia, per ben tre volte le è stata rifiutata dalla sua ASL l’accesso
al fine vita, vedendosi costretta ad andare in Svizzera, come Carla, per poter porre
fine alle proprie sofferenze.
Importante sottolineare come, col nuovo disegno di legge,
Santi non avrebbe potuto avere accesso il suicidio medicalmente assistito. È
anche vero però che la formulazione di tali leggi spesso è molto complessa,
perché si rischia di imbattersi in quello che si chiama “pendio scivoloso”,
porre delle limitazioni tali per cui si riesca davvero ad aiutare chi ne ha
bisogno e non strumentalizzare la sofferenza altrui per altri scopi.
Se la storia di Laura Santi è una storia a lieto fine, di
una donna che è riuscita a decidere per sé, quella di Martina Oppelli è invece
il monito di uno Stato che avrebbe potuto e dovuto fare di più, perché tutti
meritiamo di vivere e morire in maniera dignitosa.
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