Il caso Carmela Cirella

Di Matteo Rossi

Parlare del caso di Carmela Cirella non è affatto semplice. È una vicenda che ti strappa il cuore e poi lo calpesta, come se nulla fosse. Non solo per la tristezza degli eventi che ne derivano, ma anche perché, sebbene storie come questa finiscano spesso rapidamente nel dimenticatoio, quella di Carmela Cirella ci è scivolata dentro quasi ancor prima di essere raccontata.
Carmela Cirella era una ragazzina di Taranto, di appena 13 anni, quando il 15 aprile 2007 decise di togliersi la vita a seguito di una di una delle storie più tristi e buie della cronaca italiana.
La giovane Carmela viveva con la famiglia nel quartiere Paolo VI, una parte fondamentale della sua vicenda. Paolo VI non è un semplice quartiere di Taranto, costruito negli anni '70 come zona residenziale per la classe operaia, col tempo, è diventato simbolo di degrado e abbandono, un'area della città dove povertà, disoccupazione e microcriminalità sono fenomeni diffusi, sarà proprio nelle strade del suo quartiere che, nel 2005, Carmela fu molestata da un certo Alfredo, un ufficiale della marina conosciuto nel quartiere con il soprannome del ‘‘ il pedofilo di San Vito ’’, un uomo già noto alle forze dell'ordine per atteggiamenti sospetti. La madre di Carmela, venuta a conoscenza del fatto, sporse prontamente denuncia, sperando nell’aiuto delle istituzioni. Aiuto che, purtroppo, non sarebbe arrivato: la polizia archiviò velocemente il caso, ritenendolo privo di riscontri, nonostante il racconto dettagliato di Carmela. Ma le parole di una bambina di 12 anni non furono ritenute sufficienti.
Carmela proverà a dimenticare, ma qualcosa dentro di lei si è incrinato. È una ragazza sensibile, e da quel momento inizierà a chiudersi sempre più in se stessa. Nulla, davvero nulla, tornerà com’era prima.
Inizierà un percorso con lo psicologo della ASL, tentando di dare un nome a ciò che sente e di lasciarsi alle spalle quella ferita. Un anno di sedute, lunghi silenzi, porte chiuse e giornate spese a guardare il soffitto.
Poi, nel novembre del 2006, qualcosa si rompe di nuovo. Un litigio con i genitori — le negano un’uscita con gli amici — e Carmela scappa via, travolta dalla rabbia. Corre via da casa e da tutto ciò che sente come una punizione. Si domanda del perché deve essere lei a pagare per un crimine di cui non ha colpe, ma sarà proprio quella fuga impulsiva a spingerla dritta tra le braccia di uomini che non cercavano in lei una persona, ma solo un corpo da usare. Uomini che del suo bene non sapevano che farsene. Nel giro di pocho, Carmela viene avvicinata da un ragazzo che non ha mai visto prima: Emanuele C., 17 anni appena. Le parole sono gentili, il tono rassicurante. Lei, fragile e in cerca di uno spiraglio, si lascia convincere a seguirlo a casa sua. Non sa che quello sarà il primo passo verso il buio. Probabilmente con l’inganno, lui le somministra una sostanza: qualcosa che la stordisce, che le toglie il controllo. Quella notte diventa confusa, spezzata.
“All’inizio non capisco… Sento solo un peso addosso. E qualcosa muoversi dentro. Ho perso il controllo.” (Dal diario di Carmela, ritrovato postumo.)
Mentre lei è ancora incosciente, entra un altro uomo: Massimo Carnevale, 47 anni, tossicodipendente, pregiudicato. Anche lui abuserà di lei. 
“Non so se dura un minuto o un’eternità. Lo guardo. Mi sento galleggiare. E lui… è come se ballasse”. Quando si risveglia, è sola. Sdraiata sulla strada, abbandonata come qualcosa che non serve più. Passano le ore, giorni interi. I genitori iniziano a temere il peggio e si rivolgono alle autorità. Ma la denuncia cade nel vuoto: forse perché si parla di allontanamento volontario, forse perché nessuno ha voglia di ascoltare davvero. Le ricerche non partono. Carmela continua a vagare per le strade del quartiere, sola e disorientata. È in quel momento che incrocia Filippo Landro e Salvatore Costanzo, di 27 e 26 anni. Sembrano gentili, le offrono un posto dove fermarsi, un rifugio nel loro camper. Ma dietro quei sorrisi si nasconde ancora una volta la brutalità: anche loro, come altri prima, si rivelano aguzzini senza pietà. Quando riesce a liberarsi, Carmela si rifugia da Cristian M., un ragazzo per cui ha sempre avuto un debole. Crede che con lui potrà finalmente sentirsi al sicuro, che saprà capirla. Ma si sbaglia. Cristian conosce bene i sentimenti che lei prova — e li userà contro di lei. Per la quinta volta, Carmela subisce la violenza più devastante. Non perché sia la prima, ma perché arriva da qualcuno di cui si fidava. Dopo quattro giorni, Carmela si ricongiunge finalmente alla sua famiglia. È sconvolta, sotto shock. In solo quattro giorni è stata rapita, drogata e stuprata da cinque uomini diversi. Un'esperienza traumatica che ha lasciato segni profondi, non solo sul corpo, ma soprattutto nell’anima. Vorrei poter dire che la storia di Carmela si fermò lì. Che semplicemente non trovò il coraggio di raccontare ciò che aveva vissuto e che, sopraffatta dal peso di quegli abusi, finì per crollare in silenzio. Ma non fu così. Carmela era una ragazza forte, con uno spirito ostinato. Al contrario di ciò che poteva sembrare dall’esterno, trovò dentro di sé la forza di rialzarsi, per quanto potesse, da quel trauma. E denunciò. Raccontò tutto. Mise nelle mani degli adulti la sua storia, nella speranza che chi aveva sbagliato pagasse. Ma, per la terza volta, le istituzioni che avrebbero dovuto proteggerla rimasero in silenzio. A farsi sentire, invece, furono altre voci — cattive, taglienti. C’era chi la accusava di mentire, chi la dipingeva come una provocatrice. Come se una bambina di 13 anni potesse esserlo. Il silenzio delle istituzioni pesa su Carmela, e questo si riflette anche nei suoi comportamenti quotidiani. A scuola è spesso irrequieta, ha scatti d’ira, un carattere che molti giudicano “irascibile”. Viene etichettata come “problematica”. A gennaio del 2007, arriva l’espulsione. Anche la scuola — quel luogo che avrebbe dovuto accoglierla, comprenderla, aiutarla a ricostruirsi — la abbandona. Anzi, se ne libera. Come se togliersi Carmela di torno fosse più facile che prendersi cura del suo dolore. Nel frattempo proseguono le sedute con assistenti sociali e psicologi. Sarà proprio alla fine di una di queste lunghe sessioni che uno psicologo la definirà “disturbata e con capacità compromesse”. A seguito di questa valutazione, viene disposto il suo ricovero in un istituto specializzato per casi di violenza familiare. Carmela viene allontanata dalla sua famiglia — ufficialmente, per offrirle “il supporto necessario”. La famiglia, ancora una volta, si fida. Credono che quell’istituto possa davvero aiutare Carmela a elaborare il trauma. E nel frattempo continuano a sperare che la giustizia, anche se lenta, prima o poi arrivi. Ma già a dicembre era arrivato un segnale chiaro: per le autorità, il caso di Carmela sembrava essere di serie B. Gli indumenti che aveva indossato durante quei quattro giorni — con evidenti tracce di sangue e materiale biologico — erano stati riconsegnati senza essere mai sottoposti a perizia. Carmela, ormai allontanata dalla sua famiglia, comincia il suo percorso al Centro Aurora di Lecce, un istituto specializzato nell'accoglienza di minori vittime di violenza. Gli assistenti la prelevano direttamente da casa, sostenendo che sia la soluzione migliore per evitare “traumi da distacco”. Ai genitori promettono una visita già per il giorno successivo, ma invece passa un mese. Nel frattempo, all’interno del centro, Carmela viene sottoposta a una terapia a base di psicofarmaci — senza alcun consenso né comunicazione ai genitori. Dopo un mese di richieste inascoltate, i genitori riescono finalmente a rivedere Carmela. Ma davanti a loro non c’è più la figlia che conoscevano: resta solo un’ombra, un ricordo. È chiaro che le sono stati somministrati farmaci, e la cosa li spinge a chiedere aiuto a uno specialista. Il medico non ha dubbi: la cura va interrotta immediatamente. Spinti dall’urgenza e dalla paura, si rivolgono anche a un avvocato, Flaviano Boccassini, determinati a riportare Carmela a casa. Ma prima che possano fare un passo concreto, lei viene trasferita – senza alcun preavviso – in un altro centro, il “Sipario” di Gravina. Lì inizia un nuovo percorso. Questa volta, qualcosa cambia: con il coinvolgimento della famiglia, i farmaci vengono sospesi gradualmente. Ma ormai è tardi. Carmela è troppo provata, troppo distante da sé stessa. Si sente sola, abbandonata, dimenticata. E come se non bastasse, i responsabili della sua sofferenza sono ancora liberi. Siamo ormai a marzo, le indagini restano inspiegabilmente ferme. Il 18 aprile 2007 Carmela deve rendere una deposizione. La famiglia approfitta dell’occasione per tenerla a casa il più possibile. Il 14 aprile riescono finalmente a riportarla tra le mura domestiche. Ma ormai è troppo tardi. Carmela è ormai spenta, svuotata, senza più la forza di reagire. La sofferenza ha preso il sopravvento. È stanca di gridare senza essere ascoltata, stanca di non essere creduta, di essere accusata, giudicata, vista come una delusione o un problema ma soprattutto, è stanca di stare così male. Il giorno dopo, il 15 aprile 2007, sale fino al settimo piano della palazzina del suo quartiere. E lì, decide di porre fine alla sua sofferenza. La famiglia è spezzata, ma non si arrende. Porterà avanti la battaglia affinché Carmela possa avere la giustizia che merita. In particolare, il patrigno di Carmela, Alfonso Frassanito, si espone in prima linea: vuole ottenere non solo giustizia contro i suoi aguzzini, ma anche far emergere tutta la verità sulla vicenda che ha distrutto la vita di Carmela.
«Qui i colpevoli non sono solo i suoi aguzzini, ma anche chi ha gestito – o meglio, mal gestito – tutta la sua storia», dichiara in un’intervista al programma Quarto Grado, ribadendo con forza che quello di Carmela non può essere definito un suicidio. Ci vorranno sette lunghi anni prima che qualcuno paghi per quella vicenda. Ma non si potrà mai dire che, per Carmela, sia stata davvero fatta giustizia. Il Tribunale di Taranto condanna Salvatore Costanzo a dieci anni di reclusione e Filippo Landro a nove anni e sei mesi di carcere. Ma tutti gli altri, invece, non subiranno alcuna condanna. Emanuele C. e Cristian M., nonostante abbiano confessato, essendo minorenni vengono sottoposti a una semplice misura di messa alla prova per soli quindici mesi – mai realmente scontata. Massimo Carnevale viene invece completamente assolto per insufficienza di prove. Così si conclude la storia di Carmela Cirella: la storia di una bambina stuprata dagli uomini e abbandonata dallo Stato. Una storia che lascia inevitabilmente trasparire tutta la solitudine e il dolore che Carmela portava dentro di sé. Solitudine e dolore che, insieme agli abusi subiti, Carmela ha raccontato con lucidità e disperazione su pagine e pagine del suo diario. Quel diario, insieme alla sua vicenda, ha ispirato una graphic novel intensa e toccante, scritta da Alessia Di Giovanni e illustrata magistralmente da Monica Barengo. Pubblicata da Becco Giallo nel 2013, l’opera porta un titolo forte e simbolico: Io sò Carmela. Un titolo che nasce da un’espressione che Carmela ripeteva con fierezza: “Io sò Carmela”. Un motto semplice ma potente, con cui affermava la sua identità in un mondo che troppo spesso l’aveva ignorata o tradita. "Io sò Carmela" non ha solo lo scopo di non far dimenticare la storia di Carmela, ma anche quello di lanciare un messaggio forte e necessario: ricordarci che l’omertà e l’indifferenza possono essere più taglienti e dolorose di quanto immaginiamo. Perché è fin troppo comodo indignarsi e gridare giustizia solo dopo che una vita viene spezzata. Alessia Di Giovanni e Monica Barengo lo sanno bene. Di Giovanni riesce a raccontare con un testo asciutto ma potente la storia di Carmela, enfatizzando i momenti più significativi e riportando, quando serve, frasi tratte direttamente dal diario. Al rendere il tutto più significativo sono le illustrazioni di Baregno, Carmela non ha tratti distintivi: indossa una semplice felpa rossa, delle sneakers, il volto appena accennato, incorniciato da lunghi capelli neri. Non è pigrizia stilistica, ma una scelta precisa: ricordarci che chiunque può essere Carmela.

Carmela non ha avuto piena giustizia. Ma la sua voce, spezzata troppo presto, continua a parlarci.
È una voce che chiede ascolto, rispetto, verità.
Sta a noi, oggi, non lasciarla cadere nel silenzio.
Sta a noi, oggi, continuare a dire con lei: Io sò Carmela.

 

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