di Denise Antonietti
Motore.
È il dicembre del
1979.
Mentre a Teheran ai
lati delle strade è ammonticchiata la neve sporca, in California ci sono
venticinque gradi.
Campo lungo: Tony Mendez guida
lungo Sunset Boulevard a finestrini abbassati.
Primo piano: Occhiali con lenti
fumé, camicia sbottonata al colletto, maniche arrotolate e sigaretta in bocca.
Tranquillo, all’apparenza. In realtà, non riesce a togliersi dalla testa che,
se qualcosa va storto, questa sarà la fine della sua carriera.
Inspira una boccata
di fumo, la soffia fuori dal naso, il venticello tiepido gli accarezza la
faccia. Comunque, se andasse tutto in malora, potrebbe sempre ripiegare sul
cinema: dopo quattordici anni da falsario nella Technical Services Division della CIA, di storie ne ha da vendere.
Questa, però, le
batte tutte.
Purché funzioni.
Piano americano: Mendez ferma la
macchina sotto le finestre di un edificio a due piani. Un colpo di clacson,
lascia il motore in folle. Se pensa che sta mettendo la propria carriera e la
vita di sei cittadini americani nelle mani del truccatore de Il Pianeta delle Scimmie… no, è meglio
che non ci pensi.
John Chambers lo
stava aspettando, scende. Quando sprofonda nel sedile del passeggero,
l’abitacolo si riempie della sua colonia.
Mendez lo studia: a
Chambers per poco non saltano gli occhi dalle orbite per la curiosità, eppure
non apre bocca. Lo sa come funziona, non è la sua prima volta con la Ditta. Le domande le fanno loro.
Stavolta però è
così grossa che Mendez decide di aspettare un poco, prima di parlare.
Ingrana la prima e
si rimette in strada.
Inquadratura dal parabrezza. Mendez
guida, Chambers tace. Guardano la strada.
Le ombre delle
palme cadono loro addosso come lame di ghigliottina.
Controcampo, dal sedile posteriore: Chambers non ce la fa più. Allora?, chiede.
Mendez rallenta.
Primo piano: abbassa le lenti,
guarda in faccia l’amico, e se ne esce con la cosa più cliché che si possa dire
su un boulevard di Los Angeles: Allora, ho in testa un film.
Ciak.
Tony Mendez non è
matto né ubriaco, anche se così di primo acchito probabilmente è quello che
pensa Chambers.
Campo: Lo sai che sta succedendo
in Iran, chiede Mendez.
Controcampo: Chambers lo sa: è
su tutti i giornali. Lo staff dell’ambasciata americana a Teheran è tenuto in
ostaggio da sessantanove giorni.
Quello che nessuno
può sapere leggendo i giornali è che in realtà, del personale dell’ambasciata,
ai sequestratori ne sono sfuggiti sei, che sono riusciti a scappare e
rifugiarsi a casa dell’ambasciatore canadese.
È solo questione di
tempo prima che gli iraniani se ne accorgano: bisogna trovare un modo per
esfiltrare i sei. Servono passaporti falsi, visti, una via di fuga. Ma,
soprattutto, occorre una storia di copertura.
Anzi, uno script.
L’idea di Mendez è
folle quanto geniale: trasformeranno i diplomatici in fuga nello staff di una
produzione cinematografica.
A Chambers per poco
non viene un infarto. Altro che Oscar, questa roba è materiale per una
leggenda.
Si riprende in un
attimo, guarda Mendez e gli fa: ho la sceneggiatura che fa al caso tuo.
Dissolvenza.
Azione.
In realtà non è
proprio vero che ce l’ha, ma sa dove trovarla: il caso vuole che proprio
quell’anno il romanzo premio Hugo del ‘67 Lord
of Light di Roger Zelazny fosse stato opzionato per farne una versione
cinematografica. Poi, per problemi legali, il progetto era naufragato.
Niente paura: Argo lo produce la CIA.
Alla Ditta sanno bene che il diavolo è nei
dettagli, e non lasciano niente al caso: mettono in piedi Studio Six, piazzano
al centralino la moglie di Chambers, realizzano la locandina del film e
comprano pagine pubblicitarie su Variety.
Intanto, Mendez e Ed Johnson, alias Julio,
la cui identità è stata svelata solo nel 2023, lavorano fianco a fianco con il
governo canadese che fornirà i passaporti e tutta la documentazione di
supporto, spedita a Teheran con corriere diplomatico.
Funziona tutto come
in un film, incluso il momento all is
lost in cui si rendono conto che sui falsi visti è stato commesso un errore
con le date.
Alla fine, Mendez e
Johnson riescono a infiltrarsi in Iran, recuperano gli americani e si preparano
alla fuga.
Il 27 gennaio 1980,
la troupe di Studio Six lascia l’Iran
imbarcandosi su un volo civile operato da Swiss Air. Lo stesso giorno,
l’ambasciata canadese a Teheran chiude i battenti per paura di ritorsioni, nel
caso in cui la notizia dovesse trapelare.
E infatti trapela:
la pubblica Jean Pelletier su La Presse,
e manda a monte tutti i piani degli americani di tenerla segreta.
Ma non importa:
ormai i diplomatici sono in salvo.
Mendez e Johnson,
con l’aiuto di un maestro dei travestimenti holliwoodiano, l’ambasciata
canadese e un’audacia ai limiti dell’incoscienza, ce l’hanno fatta.
E il film?
Lord of Light non verrà mai
realizzato, tantomeno in Iran.
Argo, però, si farà: ma non come
lo avevano pensato loro. Nel 2012, a file desecretati, la vicenda del
cosiddetto Canadian Caper diventa una
pellicola con protagonista Ben Affleck.
E, ovviamente,
vince l’Oscar come miglior film.
A dirla tutta però,
il premio avrebbe dovuto vincerlo un altro: Tony Mendez, 33 anni prima.
Titoli di coda.
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