Di Denise Antonietti
Dicembre 1962, piena Guerra Fredda.
Nei cinema è appena uscito Dr. No, il primo
adattamento cinematografico della serie di James Bond di Ian Fleming.
Rispetto a Londra, a Beirut fa quasi caldo.
Di sicuro non c’è aria di Natale.
Non per Nicholas Elliott.
A quarantasei anni appena compiuti, venti dei
quali passati a lavorare nell’intelligence, Elliott sa che, fuori dalla
mitologia cucita addosso a Sean Connery per il grande schermo, quello della
spia è un mestiere infame.
Ma è oggi il giorno in cui sta per
sperimentarlo fino in fondo, sulla propria pelle.
Casa di Harold è illuminata a giorno, brilla
nella notte libanese come una pepita.
L’oro degli sciocchi.
Harold.
Nessuno lo chiama così: per gli amici è sempre
stato Kim, come il romanzo di Kipling.
Kim Philby.
Kim la spia. Elliott sente l’acido risalire
l’esofago. Non Kim la spia: Kim il traditore.
Elliott trova la porta d’ingresso socchiusa,
la spinge. Sul sécretaire all’ingresso un mucchio di lettere, alcune aperte,
altre ancora intatte. Un cappotto buttato a terra, o forse caduto
dall’appendiabiti, difficile dirlo.
Nonostante tutte le luci accese, in casa c’è
silenzio.
Elliott sale la scala, segue l’odore di alcol,
e quando arriva al primo piano finalmente sente un rumore: un respiro a metà
tra un rantolo e un singhiozzo.
Svolta l’angolo del pianerottolo, e lo trova
accasciato contro un radiatore, la bottiglia vuota accanto, e una benda in
fronte, chiazzata di sangue.
Sbronzo da non stare in piedi, piccolo, e
insignificante.
L’uomo che ha mandato a morte gli amici, che
ha venduto la patria al nemico e l’anima al diavolo, ridotto a un povero
alcolizzato.
Mestiere infame, gli risuona nelle orecchie.
Philby alza la testa, in qualche modo lo
riconosce: ti aspettavo, dice.
Elliott si ferma. Era sicuro che la rabbia
avrebbe preso il sopravvento, una volta che se lo fosse trovato davanti, invece
deve ricacciare indietro le lacrime.
Fa qualche passo avanti, gli tende la mano, lo
deve sollevare di peso per tirarlo in piedi.
Una volta ti ammiravo, Kim… Dio mio, come ti
disprezzo ora. Spero ti sia rimasta almeno la decenza di capire perché.
Kim lo sa, il perché: è ubriaco, ma non
idiota.
Dopo anni spesi a passare a nomi, segreti,
informazioni all’Unione Sovietica, dopo aver messo fine alla carriera di decine
di agenti, è arrivato il momento del suo contrappasso: il maggiore del KGB Anatoliy Golitsyn ha
defezionato, e svelato il suo nome agli americani.
È la fine: la sua vita corsa su binari
paralleli è deragliata.
Nicholas Elliott guarda il suo ex amico, e non può fare a
meno di pensare che Kim se lo aspettava.
Forse se lo augurava, addirittura: la coscienza non gli
dava requie, e per questo aveva cominciato a cercare la pace nel fondo di una
bottiglia — senza trovarla mai.
Elliott lo trascina nello studio, lo siede alla scrivania.
Pretende una confessione scritta e firmata, ma Philby non è nelle condizioni di
scrivere.
Però parla: Kim confessa.
E poi il mistero: alla fine del 1962, Kim Philby era nelle
mani dell’MI6, e il 23 gennaio successivo non lo era più.
Svanito.
Riemergerà in Russia, conferma ufficiale il primo luglio
del ‘63.
Quel che successe davvero in quella casa non lo sapremo
mai.
Alcuni credono che l’MI6 abbia ritenuto meno imbarazzante
permettere a Philby di fuggire, piuttosto che esporre la loro incompetenza.
Io però voglio essere romantica, per una volta: dopotutto
è quasi Natale.
Penso a Nicholas Elliott, e penso che lui e Philby non
erano della stessa pasta.
Kim costruì la sua fama buttando gli amici in pasto alle
fiere.
Elliott non è mai diventato famoso.
Ma forse, quella sera di dicembre, un ex amico decise di
risparmiarlo.
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