Omicidi di Traversetolo. Fiori su cui costruiamo una narrazione di normalità che si lascia dietro una scia di solitudine
di Fabio Gaudiosi
Cosa
succede quando la società scopre che “una ragazza normale” è accusata di aver
ucciso due neonati, a distanza di un anno l’uno dall’altro? Cosa succede poi
quando viene a conoscenza che questi due bambini erano per giunta suoi figli? La
prima fase è sempre quella dello shock, del “come è potuto succedere”, del “non
posso credere che oggi si verifichino ancora eventi del genere”. La seconda è
invece quella dell’indignazione, del giudizio, del “senz’altro deve pagare”,
fino al “mia figlia non avrebbe mai potuto”. E poi arriva la terza fase, quella
in cui tutti si voltano, in cui la storia si dimentica, lasciata alle spalle da
grattacieli di indifferenza e disinteresse, come se non fosse opportuno
occuparsene ancora. Ma è proprio la convinzione della distanza, di quella
narrazione che divide il noi dal loro, che permetterà a questi eventi di
ripetersi ancora, come il movimento di un serpente che si morde la coda,
tornando a bussare, inesorabile, alla porta di un nuovo destino sventurato.
Ciò
che è avvenuto a Traversetolo, in provincia di Parma, è senz’altro
raccapricciante, una di quelle storie che lascia spaesati per il dolore e
l’assurdità che imprime nei cuori di chi le ascolta. Ovviamente, per
comprendere bene cosa sia avvenuto e quale strage si sia consumata, bisogna
andare per gradi, seguendo la linea temporale scandita dalle indagini e dai
ritrovamenti che da queste si sono susseguiti.
Il
7 agosto 2024 la famiglia Petrolini parte per un viaggio a New York, dove
intende rimanere per circa una decina di giorni; a vigilare casa c’è la nonna, perché
possa anche accudirne gli animali. Uno di questi, il 9 agosto, dirige la
propria attenzione verso un punto fisso del giardino ed ecco che avviene la
scoperta raccapricciante: il cane ha appena dissotterrato il cadavere di un
neonato. Vengono immediatamente allertate le forze di Polizia dai vicini e la
famiglia Petrolini avvisata del ritrovamento, ma l’incredulità non impedirà
loro di rispettare i programmi del viaggio: torneranno soltanto il 19 agosto,
come stabilito fin dall’inizio. Nel mentre vengono disposte le analisi del Dna
del corpo, affinché possa esserne individuata la madre. Quando la famiglia Petrolini
fa ritorno in Italia, viene immediatamente ascoltata dagli investigatori. Una
particolare attenzione è fin da subito rivolta verso la figlia Chiara,
studentessa universitaria di 22 anni, che però rimane in silenzio. Ma il 27
agosto i risultati delle analisi del Dna non lasciano più dubbi: la madre del
neonato ritrovato nel “giardino degli orrori” è lei. Le indagini si direzionano
prepotentemente verso la ragazza, che però continua a non collaborare. Fin
quando il 7 settembre non vengono ritrovati nel giardino della villa i resti di
un secondo cadavere di un neonato, in uno stato piuttosto avanzato di
decomposizione: le analisi riveleranno che anche lui è figlio di Chiara
Petrolini. Intanto, l’autopsia effettuata sul primo neonato ritrovato rivela
che la data del decesso fosse proprio il giorno della partenza della famiglia
Petrolini a New York: poche ore prima di partire la ragazza, informatosi su
internet su come abortire, si auto-indusse al parto, per poi sotterrare il
cadavere del bambino in segreto. L’autopsia effettuata invece sul neonato
trovato il 7 settembre rivela che questi fosse stato partorito nel maggio del
2023: nessuno dichiara di aver mai avuto sospetti, né la famiglia, né il
fidanzato Samuel, né gli amici, che dalla notizia rimangono tutti estremamente scossi.
Infine, il 20 settembre la Procura di Parma dispone la custodia cautelare per
Chiara Petrolini, dopo che una prima domanda era già stata respinta ad agosto.
Quella
di Chiara è insomma una storia dipinta di nero, dove la tragedia penetra nei
meandri più profondi della nostra indignazione, rendendoci incautamente
incapaci di avanzare delle riflessioni. Eppure, sforzarsi di capire il perché,
comprendere quale ingranaggio si sia spezzato per arrivare a questo punto, è un
atto dovuto dal quale nessuno dovrebbe fuggire. Poiché non sono poche le
perplessità che questa storia, guardandola con un poco più di attenzione,
insinua nei nostri ragionamenti. Innanzitutto, bisogna chiedersi quanta
responsabilità abbiano in questo caso le politiche sociali condotte nel nostro
Paese in tema di aborto e di supporto psicologico. Due materie apparentemente
separate ed eppure estremamente legate tra di loro, quando il destino di una
donna incontra la solitudine di una società indifferente alla sua decisione. Piuttosto
che de-umanizzare l’individuo che rompe lo schema dettato del modello della
società in cui è inserito, bisognerebbe sforzarsi di comprendere le cause che
hanno causato tale comportamento. Se è vero che siamo ciò che il mondo attorno
a noi ci ha condotti ad essere, le ragioni delle azioni - persino più
raccapriccianti - andranno sempre ricercate nelle disfuzioni dei contesti
educativi e sociali in cui queste, infine, si sono rese possibili. Costruire
una narrazione basata sul concetto di normalità, sul rinnegamento del soggetto
che abbia agito in maniera diversa, nel tentativo gravissimo di costruirgli
attorno l’immagine di mostro, finisce per “ricoprire infermi che non riescono a
venire alla luce”, come sostenuto in merito alla vicenda dallo psicoterapeuta
Massimo Recalcati. Ed è proprio qui che si inserisce un’ulteriore riflessione:
come ha potuto il mondo circostante a Chiara Petrolini non accorgersi che fosse
incinta? Sulla base di ciò che è emerso dalle indagini, nessuno ha mai
sospettato della sua condizione, che sarebbe stata mascherata dalla ragazza con
una dieta ferrea. Ed è proprio questo a lasciarci ancora più sbigottiti. In un
intervento molto stimolante che Massimo Gramellini ha regalato al suo pubblico
nella puntata del 21 settembre di “In altre parole”, il giornalista si
interrogava su quanto, nella società di oggi, ci accorgiamo della differenza
tra il semplice guardare una persona e osservarla davvero. Anche in questo
caso, non è intenzione di chi scrive mettere sul banco degli imputati quelle
persone che avremmo potuto essere noi. Eppure si nasconde proprio qui la cifra
di questa storia: nella solitudine a cui oggi molti individui sono condannati
nella folla di persone che li accerchiano. Fino a ridurre la pagina di questo
dramma in un’immagine: un giardino, vuoto, su cui si erge un fiore, solo. Quel
fiore è dei bambini che mai vivranno la vita che avevano appena iniziato a
respirare. È di quella ragazza che sconterà il sangue di cui le sue mani si
sono macchiate. Ma è anche nostro, quando attorno a noi costruiamo una
narrazione di normalità, la quale non fa drammi, non commette delitti, ma
lascia l’uomo a vivere la propria solitudine. Un fiore solo, soffocato in un enorme
giardino, dove lo spazio attorno non è libero ma è solo vuoto.
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