Di Fabio Gaudiosi
Ci
sono casi in cui alcuni omicidi assumono tratti impenetrabili, come se fossero
stati concepiti da un narratore senza voce né volto. Omicidi in cui gli
investigatori sono costretti a brancolare in un buio sempre più fitto, alla
ricerca di piste che si rivelano puntualmente dei vicoli ciechi. Quello di
Marta Russo, studentessa ventiduenne che fu colpita da un proiettile mentre
camminava costeggiando gli edifici della Sapienza il 9
maggio 1997, assunse fin da subito colori foschi, costringendo la magistratura
in un processo in cui le incognite rimasero sempre più numerose delle certezze.
È questa la sensazione che aleggia mentre il giornalista Mauro Valentini conclude l’evento organizzato da Gialli.it nella sede della Casa del Giallo a Napoli in via Enrico Alvino 129, per discutere di uno dei casi di cronaca più neri della storia italiana; le mani alzate tra il pubblico sono in tante, quasi quante le domande che mi affollano la mente dopo il suo racconto. È una prospettiva nuova la sua, che contesta la verità processuale affidandosi ad un riesame di quegli stessi elementi di prova valutati dai giudici al tempo del processo. Un lavoro realizzatosi nel libro “Marta Russo: il mistero della Sapienza” (edito da Armando Editore), all’interno del quale Valentini sfida ogni convinzione sorta con lo scorrere del tempo, cercando di restituire giustizia a un caso che appare ancora fin troppo torbido.
Valentini, come ci si documenta per un caso di
tal genere? Soprattutto, quanto è più complesso svolgere oggi quest’inchiesta
dopo tutti questi anni? E, a tal proposito, quali differenze sussistono tra
seguire un caso contemporaneamente allo svolgersi delle indagini e farlo molto
dopo?
Il “cold case” ha delle regole di “ingaggio” diverse chiaramente, rispetto alla cronaca attuale o ai casi dove l’iter processuale è in itinere. Occorre, in casi come questo di Marta Russo, cercare i fascicoli processuali in archivio e compiere un’opera di “archeologia investigativa” recuperando non solo le carte ufficiali, ma anche confrontando con i servizi giornalistici dell’epoca, perché è fondamentale, secondo me, immergersi nell’atmosfera di quei giorni in cui è maturato il fatto e il processo.
Le incursioni giornalistiche che hanno
sconfessato il processo prima, e la sentenza poi, sono state molteplici… come
si spiega l’indifferenza della magistratura alle diverse suggestioni che le
sono arrivate dall’esterno?
Ho difficoltà a spiegarmelo. Ci sono delle evidenze che in qualche modo rendevano chiaro che non poteva esser andata come la Procura aveva ipotizzato durante la costruzione dell’accusa. Ci sono così tante evidenze che, alla fine, a legger il dispositivo della sentenza, in qualche modo devono esser comunque balenate anche al collegio giudicante, se è vero come è vero che le condanne sono risibili rispetto all’impianto accusatorio. Evidentemente questo impianto non era così forte.
Secondo lei, la copertura mediatica che vi è
stata all’epoca delle indagini, ha sofferto di una parzialità?
Non la definirei parziale. Si è tanto parlato
del caso e tanto ci si è spesi, tra giornalisti, intellettuali e uomini di
legge, affinché si riportasse il confronto sul campo del giudizio e non su
quello emozionale del dolore per la morte della povera Marta, e della
preoccupazione di dare subito un colpevole “costi quel che costi” come dissero
gli avvocati della difesa di Scattone e Ferraro.
Semmai percepisco il contrario: come è stato possibile, di fronte a tanta
evidenza, continuare con un’accusa così difficile da dimostrare?
Ritiene che la ricerca quasi disperata di un
capro espiatorio rispetto a questo processo, abbia influenzato il suo corretto
svolgimento? In tal senso, quanto è stato significativo il ruolo assunto
dall’appartenenza dei soggetti coinvolti a ceti sociali specifici?
Una domanda che nasconde un’insidia oserei dire sociologica. Ma è una suggestione interessante: penso che per un delitto così rilevante dal punto di vista mediatico, ci si sia orientati verso una colpa nell’ambiente universitario, quasi come se privilegiando la pista interna si nobilitasse l’indagine. È una suggestione la mia che esprimo dopo aver visto ore e ore di registrato e letto tutte le carte. Letto soprattutto le carte che all’inizio indirizzavano con grande speranza investigativa le attenzioni verso le società delle pulizie, al cui interno la Digos sapeva benissimo esserci qualche elemento non certo specchiato e incline all’eversione. Il processo è stato dunque padre e figlio di questa sensazione generale. Concordo.
Cosa l’ha spinta ad approfondire questo caso, fino a scriverci un libro (“Marta Russo: Il mistero della Sapienza”)?
La clamorosa ingiustizia corrisposta nei
confronti di Ferraro e Scattone. Lo dico senza filtro, e con le parole del mio
compianto amico e Maestro di giornalismo Sandro Provvisionato. Lui mi diceva
senza mezzi termini: “Per Marta Russo non è stata fatta Giustizia”.
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