Clara Negro su Luigia Borrelli e il delitto del trapano, caso ispiratore dei suoi noir. L’autrice sarà presente al Festival del Giallo Città di Napoli dal 5 all’8 giugno a Palazzo Belvedere
Di Gaia Cimbalo
Una pozza di sangue, numerose
crivellate di un trapano e un’esistenza incompiuta. Queste sono le condizioni
in cui viene ritrovata Luigia Borrelli, uccisa nel modo più cruento che si
possa immaginare, in un carruggio genovese che era stato testimone delle sue
disgrazie, della sua resilienza, e infine della sua morte. Ma cosa ci faceva
Luigia lì quella notte del 5 settembre 1995?
Luigia era un’infermiera, ma dopo la morte del marito che l’aveva lasciata piena di debiti, a causa della sua ludopatia, incapace di far fronte alle numerose spese e al sostentamento dei suoi due figli, si vede costretta a prendere una decisione difficile: prostituirsi. Nonostante tutto, riesce a portare la sua umanità anche nei luoghi dove solitamente non è immaginata, ma è presente, e questo le frutta un gran numero di clienti fissi, che ricercano specificatamente la sua compagnia. Uno di questi si innamora di lei: Ottavio Salis, il proprietario del trapano, colpevole unicamente della sua dimenticanza, il quale non riesce a reggere il peso della vergogna che ammanta questa vicenda e a causa di quest’accusa, si uccide.
Ad oggi, si conosce finalmente l‘identità
del carnefice di Luigia,
scoperta recentissima, risalente al 9 settembre 2024: Fortunato Verduci,
sessantacinquenne genovese, un uomo che avrebbe riferito di averla uccisa “per
sfizio”, l’incredibile abisso dell’esistenza umana.
Questa vicenda, così cruenta, ha ispirato una scrittrice, Clara Negro, che nella sua saga di romanzi “Un diamante rosso sangue” e “Il Graal di San Lorenzo” (Morellini Editore), prova ad immaginare come sarebbe stata la vita di Luigia se fosse riuscita a sopravvivere, se avesse avuto una rete di supporto, invece di dover sopportare il peso dell’esistenza da sola.
Durante una delle rassegne Caffè Noir del Club del Giallo e dei delitti di Carta, la giornalista Anita Curci e
l’autrice hanno ripercorso la vita di Luigia e il corso delle indagini,
excursus di fatti ma anche di persone, che restituiscono la complessità della
vicenda.
Ecco alcune domande poste all’autrice relative ai suoi libri e alla vicenda che l’ha ispirata.
Come ha conosciuto la storia di Luigia Borrelli? E cosa l’ha colpita in
particolare di questa donna?
Nel 2017 ho seguito il Festival
della Criminologia organizzato dal Secolo XIX, il quotidiano della mia città. In
quell’occasione ho letto il libro che quattro giornalisti hanno scritto sui
cold case di Genova. Dei cinque casi trattati quello che mi ha toccato, sia
emotivamente che per il numero di morti legati alla storia, è stato quello di Luigia
Borelli. Mi ha attratto il personaggio reale, una donna che ha sempre cercato
di mantenersi a galla nonostante la vita le avesse riservato situazioni via via
più complicate. E anche perché in queste situazioni avrebbero potuto trovarcisi
molte di noi.
Per scrivere il suo primo romanzo, liberamente ispirato alla vita di Luigia Borrelli, costellata da scelte difficili, tra cui la scelta obbligata di prostituirsi per far fronte ai numerosi debiti lasciati dal marito, ha dovuto documentarsi sul mondo della prostituzione, che viene delineato in maniera puntuale. Come si è documentata per il suo libro e per rendere al meglio questo universo e i suoi protagonisti?
Vivendo in una città di mare, con un Centro Storico unico in Europa, direi che la realtà della prostituzione non è mai stata scissa dalla storia stessa di Genova. Ha mutato nel tempo, questo sì, e come ho già avuto occasione di dire, tutto il Centro Storico è passato negli anni attraverso cambiamenti profondi. Sono cambiati i crimini e i criminali, si è passati dal contrabbando di sigarette allo spaccio della droga. Per quanto riguarda il meretricio, il cambiamento riguarda i volti di chi questa professione esercita. Per documentarsi basta girare per i vicoli, nei caruggi, come li chiamiamo noi genovesi, per constatare che certamente i volti delle donne sono cambiati, così come il colore della pelle. Lo sguardo però, a volte insolente, altre sospettoso, è rimasto uguale, testimone di un’esistenza grama e dolorosa.
Nel suo scritto, la protagonista interrogata dalla polizia evidenzia la triste realtà della prostituzione, lavoro che nasce da una costrizione e mai o quasi mai da una volontà. Ha avuto modo di intervistare o di parlare con donne che hanno dovuto confrontarsi con questa dolorosa realtà? Se sì, cosa l’ha colpita di queste testimonianze?
Amo i vicoli della mia città, anche se molti li temono. Devo dire che, personalmente, non mi è successo mai nulla di spiacevole, non posso dire lo stesso di altri quartieri considerati “bene”. È proprio per documentarmi più a fondo che spesso li ho percorsi scattando foto e fermandomi ad ascoltare i discorsi della gente. In una di queste occasioni sono stata avvicinata proprio da alcune professioniste del sesso, incuriosite dal vedermi scattare foto. Quando hanno saputo che stavo scrivendo un libro proprio sul loro mondo si sono dimostrate curiose e mi hanno raccontato qualcosa di loro, soprattutto della famiglia che si erano lasciate alle spalle, dei figli, della loro terra. E delle illusioni che si erano fatte arrivando qui. Mi ha sorpreso l’umanità e la sorellanza che s’instaura spesso tra queste persone, difficile da trovare in situazioni meno infelici e pericolose.
L’assassinio di Luigia è stato efferatissimo, la ragione per cui è tristemente noto. La sevizia del trapano e l’accanimento sul corpo della vittima sono scioccanti e sono spesso riscontrabili in altre vittime che facevano parte, loro malgrado, del mondo della prostituzione. Secondo lei vi è una correlazione in ciò? La percezione dell’assassino che reifica la donna non solo in vita con la sua prestazione sessuale, ma anche nella morte, sentendosi legittimato a procurare delle sevizie volte solo a procurarle dolore?
Una delle cose che mi ha colpito di questo delitto è sicuramente l’arma. Un trapano non è certo usuale, ma soprattutto testimonia della ferocia con cui l’assassino ha infierito sul corpo della vittima. Si può parlare di overkilling come manifestazione dello spregio dell’omicida verso quella donna, forse proprio verso quella specie di donne. Alla luce di quanto si è venuti a sapere del più che certo assassino, potrebbe esserci anche l’aggravante del denaro che forse l’uomo doveva o che voleva farsi prestare dalla Borelli. Naturalmente il mondo in cui si muovono queste donne è connaturato con la situazione di pericolo in cui vivono. Quando si trovano a tu per tu con uno sconosciuto devono solo augurarsi che non si tratti di un criminale o di uno psicopatico. Esiste comunque una sorta di solidarietà, di passa parola tra loro, per segnalare un individuo che potrebbe essere pericoloso.
La storia di questo delitto e delle persone che vi gravitano intorno è particolarmente tragica, un dolore che si trascina, si addiziona e travolge chiunque sia coinvolto nella vicenda. Un assassinio e tre suicidi: quanto, secondo lei, è stato provocato dallo stigma sociale di essere associati alla vittima?
Un omicidio e ben tre suicidi. Sono
morti che colpiscono, destabilizzano anche chi di quel mondo non fa parte.
Prendiamo per esempio il povero Salis, l’elettricista sardo la cui unica colpa è
stata essere il proprietario del fatidico trapano. Sono bastati pochi giorni
per farlo diventare “l’assassino del trapano”, senza prove certe. Si sa, la
stampa campa su questi scoop. Non tutti però riescono a portare il peso di
accuse che sanno essere infondate. Questo poveretto non ce l’ha fatta. Troppa
era la vergogna. Anche per lui, come per Luigia, nel mio libro ho scelto una
fine diversa: viene quasi subito cancellato dalla lista dei sospetti e può
continuare la sua vita.
Qualche anno dopo anche la Fravega
muore, colei che aveva affittato il basso a Luigia e quella che ha indicato
agli inquirenti il Salis come proprietario del fatidico trapano. Dopo la morte
dell’uomo non ha retto al rimorso e si è uccisa con una dose massiccia di
psicofarmaci.
E ancora il figlio della Borelli, Roberto. Nel 2014 si lancia giù da un ponte che taglia la strada più famosa della città. Una persona con diversi problemi fin da ragazzo, problemi che la storia della madre avrà sicuramente acuito. Stigma sociale? Forse, è certo che è difficile tirarsi fuori da un meccanismo che spesso riesce a stritolare chi capita in mezzo agli ingranaggi, specie i più deboli emotivamente
Come è nata l’idea della sua saga di romanzi, liberamente ispirato ad una parte di vita di una persona reale, ma che poi si allontana e percorre strade assolutamente inedite?
L’idea della saga è nata insieme
alla decisione di scrivere “in giallo”. Fin dall’inizio ho pensato di creare personaggi
che avrebbero potuto crescere insieme alle loro storie, pur vivendone una tutta
loro. Per quanto mi riguarda non decido nulla a priori se non una trama per
sommi capi. Procedendo nella scrittura sono proprio i personaggi e le storie
che vanno avanti, potrei dire, che mi indicano la strada, il cammino da percorrere,
o che il destino li obbliga a intraprendere.
In fondo questa è la magia dello
scrivere. Che è poi anche quella del leggere. Vivere vite che non avresti mai
pensato, essere qualcuno che avresti, o non avresti, voluto essere. La prima storia l’ho trovata nella realtà del
crimine, la seconda, seppur inventandone la trama, ha raccolto fatti e
personaggi che fanno o hanno fatto parte della storia passata e presente.
Insomma, nessuno dice nulla di nuovo. È
il modo di raccontare che cambia, che fa sì che un fatto accaduto milioni di
volte diventi il “tuo” fatto, la “tua” storia. Le parole che usi, l’ordine in
cui le metti, quelle che scegli o lasci da parte, è tutto questo che crea la
novità e che appassiona il lettore.
Una donna muore, assassinata
brutalmente, e con lei muore gran parte della sua famiglia, vittime di un
trauma dopo l’altro. È importante riflettere sulle scelte che Luigia si è
trovata a fare nel corso della sua vita e domandarci se le sue condizioni
economiche fossero state diverse se lei avrebbe scelto comunque questo lavoro
per sé e se avrebbe incontrato lo stesso destino. La prostituzione può essere
una scelta e deve esserlo. Perché il corpo delle donne è sempre stato un campo
di battaglia e deve essere determinato solo dalle dirette interessate.
Importante però chiedersi, a mio
avviso, se queste scelte compiute sempre e solo da donne povere, quanto siano
motivata dalla volontà e quanto dalla necessità.
Importante domandarsi perché questo
tipo di prestazioni sia richiesto in domanda così massiccia unicamente dalle
donne, anche in luoghi in cui la prostituzione è legalizzata e sono stati
proposti dei servizi per le donne offerte da uomini c’è stata un’eloquente
scoperta: gli unici clienti degli uomini erano solo uomini.
Cosa ci dice questo della nostra
società e delle persone che ne fanno parte? Della cultura che ci viene
impartita sin dalla tenera età e che ci ingabbia così fortemente da impedirci
di scrutare le reali motivazioni dietro fenomeni di questo genere. Perché il
sex work può essere una scelta, ma lo sarà davvero quando potrà essere una
delle tante possibilità, e non una scelta obbligata da parte di donne che
vivono in condizioni di estrema povertà. La scelta di Luigia è quella di molte
altre donne: immigrate, transgender… che non hanno altra scelta, altro modo di
sopravvivere.
E una società che lascia qualcuno
indietro è una società che ha perso in partenza.
L’autrice sarà presente al Festival del
Giallo Città di Napoli dal 5 all’8 giugno 2025 a Palazzo Belvedere
Programma completo del Festival del
Giallo Città di Napoli dal 5 all’8 giugno 2025 a Palazzo Belvedere: https://giallipuntoit.blogspot.com/2025/05/festival-del-giallo-citta-di-napoli.html
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