Oro di re, oro di massone

 


Di Denise Antonietti
 
Aprile 1941, foresta del Montenegro.
A lato del sentiero c’è un autocarro coperto di frasche, mimetizzato tra tronchi di pino e cespugli di rovi.
In realtà, nascosti nel bosco, ce ne sono in tutto cinquantadue.
Vicino a questo però sono accampati quattro o cinque uomini. Siedono sui sassi coperti di muschio, fumano e quando parlano tengono le voci basse e le facce scure.
Uno è Mario Roatta, capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano. Ha la faccia da bassotto senza orecchie, rasata di fresco, e una smorfia da gastrite cronica.
A essere onesti, vista la situazione, la gastrite verrebbe a chiunque.
Quello di fronte a lui è un ragazzo di ventidue anni. Reduce dalla guerra di Spagna, dove si era arruolato come volontario mentendo sulla propria età, e cooptato nel SIM da Luigi Alzona, è al suo primo incarico da agente segreto.
Il suo nome? Nel 1941 non dice niente a nessuno.
A noi, ancora oggi, fa drizzare le orecchie come la promessa di una buona storia.
Il ragazzo, infatti, è Licio Gelli.
 
Licio Gelli il massone. Licio Gelli della P2. Licio Gelli del Banco Ambrosiano. Il fascista-partigiano, il doppiogiochista, il fuggiasco, il venerabile.
Licio Gelli, appunto.
E quello, nel bosco montenegrino, è il suo anno zero.
Sono quei punti di snodo delle esistenze, dove gli uomini arrivano a un bivio: una strada conduce al proprio destino, un’altra all’oblio. Un’idea sbagliata, un inciampo, e sei fuori dalla storia.
Licio resta dentro.
 
Mario Roatta ha un problema, e il problema sono i cinquantadue autocarri che ha fatto imboscare.
Sugli autocarri ci sono sessanta tonnellate d’oro in lingotti.
Provenienza? Il tesoro di stato Jugoslavo, portato via da Belgrado da re Pietro prima dell’invasione tedesca, e nascosto maldestramente tra una caverna e il monastero di Ostrog.
Il monastero viene razziato dai tedeschi.
Dell’oro della caverna, però, i nazisti non sanno niente.
E gli italiani, che sono nei Balcani da prima di loro, non hanno nessuna intenzione di dirglielo.
Ma per nascondere qualcosa agli uomini di Hitler bisogna essere bravi, molto bravi.
A caricare delle casse su dei camion sono buoni tutti: ci vuole qualcosa di meglio.
L’oro deve sparire da quei boschi, e arrivare in Italia.
 
In un primo momento pensano di far uscire i lingotti alla spicciolata. Ma sessanta tonnellate sono tante, e se anche uno solo dei carichi clandestini venisse beccato, qualcuno potrebbe cominciare a fare domande.
Stesso problema con le navi: gli italiani controllano il porto presso le bocche del Cattaro, ma se la nave venisse sottoposta a ispezione addio tesoro.
 
Roatta si accampa nei boschi con i suoi fedelissimi e i due agenti del SIM, Alzona e Gelli, e scarta un’idea dopo l’altra.
A quel punto, il ragazzo di ventidue anni alza cauto la mano. Dice, forse un modo ci sarebbe.
 
L’idea di Licio Gelli è semplice: niente nave, niente camion. Usiamo un treno. Ma non a bordo di vagoni qualsiasi. I vagoni del tesoro dovevano essere contrassegnati con una bandiera gialla.
Che all’epoca aveva un significato ben preciso: epidemia.
Secondo Licio, nessun ispettore ferroviario, neanche il più solerte dei tedeschi si sarebbe affacciato con il rischio di prendersi il tifo.
E infatti, i vagoni arrivarono a Trieste senza che nessuno avesse il coraggio di fermarli.
 
Cosa accadde dopo alle sessanta tonnellate d’oro?
Be’, quella, è un’altra storia, molto lunga e molto contorta.
 
C’è però un curioso epilogo, di quasi mezzo secolo dopo.
Siamo a Villa Wanda, la residenza aretina di Licio Gelli. È il 1998.
Le forze dell’ordine perquisiscono la villa. Frugano, aprono, sfogliano.
E scavano.
Dalle fioriere e dalla terra del giardino, come nella favola di Collodi, comincia a saltare fuori dell’oro.
Molto oro.
Centosessantacinque chili e noccioline.
E se quei lingotti potessero parlare, probabilmente, parlerebbero montenegrino.
 
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