Portate gli ippopotami

 

Di Denise Antonietti

 

Washington D.C., Stati Uniti. 1910.

La cupola del palazzo del Congresso si staglia contro il cielo azzurro come la cima innevata del Kilimangiaro.

Sono in tre a salire la scalinata di marmo fianco a fianco: il senatore repubblicano Robert Broussard al centro; Frederick Russell Burnham, colonnello dell’esercito britannico nonché futuro padre dei boy scout, a destra, e Fritz Duquesne, cacciatore, avventuriero, giornalista e molto altro, a sinistra.

I tre hanno una missione, quella mattina: convincere il Dipartimento dell’Agricoltura a importare un’imprecisata quantità di ippopotami nelle paludi della Louisiana.

Detta così, la vicenda sembra uscita da un racconto di Mark Twain.

Invece è tutto vero, ci sono i verbali.

Ma questa non è una storia di ippopotami: è una storia di spie.

 

I tre gentiluomini sono quasi arrivati in cima. Burnham si ferma, inspira a fondo l’aria primaverile. Sarebbe la giornata ideale per una partita di caccia, dice.

Duquesne lo guarda di sottecchi e gli viene da sorridere: nove anni prima non avrebbe mai immaginato di trovarsi su quei gradini proprio con lui.

Soprattutto perché nove anni prima la sua missione era uccidere Burnham.

E invece eccoli lì.

Può darsi che l’idea gli passi per la testa: un guizzo, una spinta. Finire il lavoro spaccandogli il cranio su quella scalinata. Immagina il rivolo di sangue che salta giù per il marmo bianco come il fiume Congo sulle cateratte.

Si rigira per un po’ quell’immagine nella mente. Ma Duquesne è un cacciatore, e conosce l’arte di aspettare.

Fa uno dei suoi sorrisi da affabulatore. Sì, dice, giornata splendida, davvero.

Ed entrano tutti insieme nel palazzo del Congresso.

Ma chi è davvero Fritz Joubert Duquesne, e com’è arrivato fin lì?

Partiamo dalla seconda risposta, che è un po’ più facile.

Duquesne, sudafricano, approda negli Stati Uniti nel 1902, dopo essere evaso da un campo di prigionia britannico alle Bermuda.

Scappa tra i reticoli di filo spinato, nuota per due chilometri e mezzo fino a Main Island e trova un passaggio su mercantile.

Una volta in America si reinventa giornalista. Scrive articoli su delle riviste di caccia, viene letto da Theodore Roosevelt — il Presidente, proprio lui — e finisce per fargli da scout in Africa.

Chi è Duquesne?

Capitano dell’esercito boero, ufficiale britannico, cacciatore, giornalista, scout. Si racconta che abbia ammazzato il primo uomo a dodici anni; adesso che ne ha trentatré, di quelli che ha ucciso ha ormai perso il conto.

Chi è Duquesne?

Tutti e nessuno. Parla cinque lingue, ha decine di alias. Di sé, quando il senatore Broussard gli dà la parola, dichiara: Sono un animale africano tanto quanto l’ippopotamo.

Chi è Duquesne?

Facile: è una spia.

Una spia senza patria: alla fine della Seconda Guerra Boera, gli Stati per cui combatteva Duquesne non esistono più. La sua famiglia è stata massacrata: la sorella stuprata e uccisa, sua madre morta in un campo di concentramento inglese.

Senza più una bandiera, quello che gli resta è la vendetta. 

Ma, come dicevamo, Duquesne è un cacciatore. Non uccide a caso.

Ed è solo per un inciampo del Destino che Frederick Russell Burnham in quel momento si trova con lui davanti alla Commissione per l’Agricoltura a parlare di zebre da soma e bistecche di ippopotamo.

E poi, Duquesne è una spia, e le spie sanno che quando si è in ballo, bisogna ballare.

Perciò, coraggio. Portate gli ippopotami.

Ma torniamo a quel giorno del 1910.

Chi è stato in Louisiana sa che non ci sono ippopotami nel bayou. Mozione respinta.

E chi ha fatto il boy scout sa che Burnham non è morto quel giorno, né sulle scale del Congresso, né altrove.

È difficile sapere con esattezza perché Fritz Duquesne lo risparmia: se per convenienza, per mancanza di opportunità, oppure se abbia un piano in testa.

Bugiardo per mestiere, affabulatore per vocazione, di sicuro lui sosterrebbe di sì.

Direbbe che sì, quel giorno del 1910 lascia andare Burnham perché mangiare il suo pezzo significa finire in scacco matto, e invece lui vuole continuare a giocare.

Direbbe che sapeva che in quel modo sarebbe tornato a combattere gli inglesi in tutti e due i conflitti mondiali; che se lo sentiva nelle ossa che avrebbe avuto una seconda chance per ammazzare Lord Kitchener, e questa volta ci sarebbe riuscito; che avrebbe messo in piedi il più grande giro di spie naziste dell’intero Nord America.

E che se alla fine l’FBI l’avesse catturato, sarebbe stato solo perché era lui a lasciarglielo fare.

Ma quel giorno del 1910 nessuno gli fa queste domande. Gli chiedono di zebre e di ippopotami, e di quel che lui ha in testa mentre se ne sta lì in piedi accanto all’uomo che voleva uccidere, noi non sapremo mai niente.

Sappiamo però due cose: che lord Kitchener, l’uomo che introdusse i campi di concentramento in cui era finita la madre di Duquesne, nel 1916 muore affondato insieme alla sua nave mentre fa rotta verso la Russia.

E sappiamo che Duquesne viene arrestato dall’FBI nel 1941, e smette di scappare.

Sappiamo anche una terza cosa, a dire la verità: che per tutta la vita Fritz Duquesne non ha fatto altro che mentire, ma su una cosa ha sempre mantenuto la parola: aveva giurato vendetta, e se l’è presa tutta.

Fino alla fine, a ogni costo.

 

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