Il linguaggio segreto dei prison tattoos. Parte seconda: Russia

 



di Denise Antonietti 

All’epoca dell’Urss tatuare era ritenuto un crimine in sé, e per questa attività si andava in galera

Nicolai Lilin, “Educazione siberiana”

 

 

 

Parte 2: Russia

 

Un veliero che salpa a vele spiegate.

No, non si tratta di un simbolo da lupo di mare. E neanche di un vezzo: nella grammatica dei tatuaggi nelle carceri russe, il veliero identifica un uomo che non svolge un lavoro riconosciuto dalla società: un criminale pronto alla fuga.

La storia dei tatuaggi sui prigionieri però in Russia non comincia con la decisione dei membri di un gruppo criminale di incidere sul proprio corpo dei segni di riconoscimento: fino al 1863 i tatuaggi venivano imposti.

Vale a dire che erano un marchio. Il segno dell’infamia: lettere incise sulle mani, le guance e la fronte: "BOP" traslitterato: vor, ladro; "CK" o “KAT”, Ssylno-Katorzhny, condannato ai lavori forzati; "Б" per begly (fuggitivo). Per far sapere a chiunque, anche dopo aver scontato la pena, che quell’uomo o quella donna era un condannato. Un fuori casta.

Durò poco: i galeotti finirono con l’appropriarsi dei tatuaggi, rivendicandoli come di marchi d’onore: segni di sfida alla società che li aveva emarginati. Fino a diventare, in particolare durante il periodo dei gulag, un vero e proprio curriculum vitae.

Il simbolo di appartenenza a una fratellanza di fuorilegge (Vory v zakone, i “Ladri nella legge”) regolata da un proprio codice di comandamenti.

Primo tra tutti: mai, a nessun prezzo, collaborare con l’autorità. Pena l’espulsione e, di conseguenza, la morte.

In effetti Quando alcuni membri dei Vory v zakone accettarono di combattere nell’esercito sovietico nelle cosiddette unità penali, all’interno della gang si scatenarono delle violente rappresaglie che presero il nome di Bitch Wars, ovvero le guerre delle puttane, in riferimento al fatto che i membri dei Ladri che avevano collaborato con l’autorità si erano, secondo il loro codice d’onore, venduti come prostitute.

 

Chiese, madonne, svastiche, e una rosa nera sul petto

A prima vista, la scelta dei soggetti può sembrare incomprensibile. Santuari ortodossi e immagini della Vergine col Bambino non sono tra i primi tatuaggi che uno immaginerebbe di trovare addosso a dei criminali di carriera.

In realtà, anche dietro queste figure religiose si nasconde una simbologia ben precisa: oltre che una generica protezione, la Vergine significa in realtà devozione al ladrocinio, mentre il numero di cupole di una chiesa rappresenta il numero di condanne.

Insieme ai simboli pseudo religiosi, non si può non menzionare la famosa “croce dei ladri”, spesso tatuata sul petto. Una serie di croci più piccole invece, tatuate sulle nocche, indicano a loro volta quante volte il detenuto è stato incarcerato.

E una rosa nera è il marchio di chi ha compiuto diciott’anni in prigione.

Anche la svastica non identifica in realtà le simpatie politiche di chi la indossa, ma rappresenta in realtà una sfida all’autorità (soprattutto nel periodo dell’Unione Sovietica, quando questi simboli venivano rimossi con la forza).

Oskal: il ghigno del diavolo e “f*ck the system”

La storia russa del novecento è per i tre quarti la storia dell’Unione Sovietica. Non è una sorpresa quindi che molti dei simboli che hanno contribuito a creare una grammatica dei prison tattoos rappresentino una dichiarazione di guerra al regime comunista.

Da simboli dichiaratamente pro-america come la Statua della Libertà a richiami all’iconografia zarista (come ad esempio l’aquila a due teste, che risale addirittura al XV secolo), si arriva ai simboli militari (stelle, spalline e mostrine), che oltre a identificare il grado di prestigio del criminale che le indossa (spesso sottolineato da soprannomi come maggiore o colonnello), rappresentano una sfida all’autorità statale.

Le stelle sulle ginocchia hanno un significato ancora più potente: non mi piego davanti a nessuno.

Altre volte le stelle sulle spalline in stile militare sono sostituite da teschi e accompagnate da frasi come “non sono schiavo dei campi, nessuno può costringermi a lavorare”; “i forti vincono, i deboli muoiono”; “solo i cavalli muoiono di fatica”.

E poi c’è il demonio.

Forse uno dei tatuaggi più iconici: l’oskal, ovvero il ghigno, spesso disegnato sulle spalle del detenuto, è l’immagine simbolo dell’odio verso il potere: il diavolo scopre i denti contro il sistema.

“Al servizio di chi mi vuole”

Sottinteso: per ammazzare qualcuno. Il pugnale tatuato sopra le clavicole come se trapassasse il collo da parte a parte rappresenta, per dirla alla Graham Greene, una pistola in vendita. Ovvero qualcuno che ha già commesso degli omicidi in carcere, ed è disponibile a farlo di nuovo. Su commissione.

Garanzia? Le gocce di sangue che cadono dal pugnale: una per ogni omicidio commesso.

Una sorta di curriculum vitae.

Serpenti, ragni e scorpioni

Un serpente tatuato intorno al collo, un grosso ragno che risale la ragnatela: quella stretta da cui non si può fuggire che racconta storie di droga e dipendenza.

Lo scorpione semplice simboleggia il tempo trascorso in prigione, ma se ha la coda sollevata e/o le tenaglie aperte simboleggia un ex membro delle Forze Speciali.

Tatuaggi forzati

Morte alle spie: chi collabora con le guardie è destinato a una seduta di tatuaggio forzata: le parole cтукач (spia), враг народа (nemico del popolo), cyкa (puttana), o dei puntini sulla fronte, i cosiddetti “marchi di bellezza”, indicano un traditore.

In modo che tutti sappiano con chi hanno a che fare.

Un altro genere di tatuaggi spesso imposti con la forza sono quelli che individuano un prigioniero come possibile oggetto sessuale, e sono di frequente realizzati sulla schiena: i semi rossi delle carte, quadri e cuori, un paio d’occhi sulle natiche, una donna avvolta da un serpente.

Ladri nella legge, ladri nel galateo

I tatuatori all’interno delle prigioni sono figure autorevoli. Utilizzando mezzi di fortuna come rasoi modificati e inchiostro a base di gomma bruciata e urina, questi artisti improvvisati hanno anch’essi un codice d’onore ferreo. Per esempio, non parlano di denaro. L’etichetta vuole infatti che un tatuatore non concordi mai il prezzo in anticipo, ma a tatuaggio completato il cliente dovrà chiedere quanto è dovuto e la risposta sarà, immancabilmente: quanto pensi che valga il lavoro fatto? Nonostante la mancanza di un “listino prezzi”, comunque, i tatuatori sono sempre molto ben pagati.

Non solo: sono anche giudici di chi si presenta loro.

I prison tattoos, come i tatuaggi di molte culture e subculture, devono infatti essere guadagnati. Un detenuto si presenta al tatuatore accompagnato da un testimone o garante, che conferma la sua idoneità a ricevere un determinato simbolo.

E chi si appropria di un tatuaggio che non ha meritato deve sapere che passerà dei guai: i tatuaggi rubati vengono infatti rimossi a forza.

E, potete starne certi, non lo fanno con delle sedute laser.

 

 

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