“Negli anni alcuni capisaldi del genere si sono solidamente insediati dentro di me. E per scrivere il mio primo romanzo giallo ho preso un po' qua e un po' là, Manzini, Malvaldi, Camilleri, certi scarti nel buio di Scerbanenco, un certo modo di costruire le scene di azione e dialogo di Ed McBain, qualche coloritura alla Paco Ignacio Taibo II…”
Di Anita
Curci
“Mi è
sempre piaciuto leggere, e dai 18 anni in poi, un po' per imitazione e un po'
per illudermi che magari prima o poi sarei riuscito a pubblicare un libro, ho
iniziato anche a scrivere”, racconta Cristiano Cavina (nella foto) autore del
giallo romagnolo “L’ananas no”, Bompiani edizioni.
Classe
1974, originario di Casola Valsenio in provincia di Ravenna, Cavina è autore di
altri volumi di successo, ma solo quest’anno esordisce con il genere letterario
d’indagine poliziesca. Vari sono i coprotagonisti che ruotano attorno alla
trama, e in particolare Manolo Moretti, ex sovrintendente della polizia
penitenziaria e qui pizzaiolo del Gradisca di Galatea a Mare, un fantomatico
borgo della Romagna; il suo principale, Vittor Malpezzi, ex pregiudicato; la
cameriera Channèl, appassionata di true crime.
Cavina, che
nella vita è stato anche pizzaiolo, continua: “Credo di aver iniziato prima a
scrivere con una certa continuità che a fare le pizze, o forse le due cose sono
quasi contemporanee. Poi è capitato che un libro sono riuscito davvero a
pubblicarlo, e con quelli dopo è saltato fuori che potevo anche viverci di quel
mestiere”.
“L’ananas
no” è il suo primo giallo, come mai ha virato verso questo genere?
È il mio
primo giallo pubblicato. In realtà il primo romanzo in assoluto che ho scritto
era un giallo (che nessuno leggerà mai, perché era orribile). Anche il terzo
romanzo che ho scritto era un giallo (orribile pure quello) e il sesto
(orribile, forse un po' meno degli altri due). Erano i romanzi su cui diciamo
che mi son fatto le ossa, tutti sepolti in cantina. Da lettore invece ho sempre
amato il genere, sono quasi un cultore (del giallo/poliziesco e della
fantascienza, a essere precisi) Il libro è venuto fuori così, parlando con
Giulia Ichino di Bompiani, così, da lettrice/lettore. Mi è venuto in mente il
titolo, poi il primo capitolo, per gioco, poi tutto il resto... Mi sembra quasi
di non averlo deciso io. È venuto e basta.
Nello
scrivere si è sentito influenzato da qualche autore?
Non sapevo
se sarei stato in grado di gestire “il caso”, l'inchiesta che è il fulcro dei
gialli, così mi sono concentrato su quello che sapevo, la mia terra, la
Romagna, sui personaggi, sulle pizze e su alcune cose particolari che hanno gli
esseri umani, un misto di ironia e casini vari. Per la parte “gialla”, diciamo
che negli anni alcuni capisaldi del genere si sono
solidamente insediati dentro di me. Ho cercato di non fare danni, prendendo
un po' qua e un po' là, Manzini, Malvaldi, Camilleri, certi scarti nel buio di
Scerbanenco, un certo modo di costruire le scene di azione e dialogo di Ed
McBain, qualche coloritura alla Paco Ignacio Taibo II... (ovviamente non sono
degno dell'alluce di nessuno di loro, eh).
Manolo
Moretti è un personaggio credibile, perché possiede tutte le caratteristiche
umane che lo rendono vero. A chi pensava quando ne ha tratteggiato il carattere,
il passato e il presente?
Ha qualcosa
di me, soprattutto la sua parte di “pizzaiolo”: una certa insofferenza verso i
clienti, altre cose sono canoni della mia famiglia, una certa allegra
precarietà finanziaria, la capacità di creare disastri nei rapporti personali,
ma poi i personaggi quando stai scrivendo qualcosa che ti prende, giustamente
iniziano a vivere la loro vita, a sviluppare il loro carattere,
indipendentemente da te.
Anche gli
altri personaggi sembrano usciti da una comunità autentica, come se vivessero
da qualche parte in un borgo realmente esistente. Si è ispirato a persone che
conosce?
Ho fatto
davvero le pizze con una cuoca che aveva perso la figlia in un incidente,
duettavamo davvero insieme durante il servizio: l'aiutante pizzaiolo che avevo
a Casola era un sovrintendente della penitenziaria in pensione: Paderna, il
migliore amico di Moretti, è ricalcato su molta della gente in mezzo a cui sono
cresciuto, gente che vive nei boschi, che va a funghi e tartufi. Uno dei
parroci di Casola era un famoso cacciatore, al limite del bracconaggio... Le
persone con cui hai vissuto restano dentro di te e si intrufolano nelle pagine,
anche se scrivi di fantascienza o di delitti...
Ogni
personaggio del libro è presente in maniera equilibrata tra le pagine. Nessuno
emerge di più o di meno rispetto a un altro. O, almeno, questa è l’impressione.
In confidenza, ce n’è uno che preferisce?
Non ce n'è
uno in particolare. Voglio bene a tutti, mi ricordano così tanto questa terra
inventata e tenuta su dalle patacche di chi ci abita che è la Romagna. Se
proprio devo dirne una, è la Channel, la giovanissima cameriera del Gradisca,
appassionata di true crime e in pratica la vera detective del romanzo. Spesso
si parla malissimo dei giovani - "eh, ma dove andremo a finire", roba così -
ma probabilmente perché, invecchiando, tutti ci dimentichiamo davvero com'era
l'adolescenza. Si è incasinati, ma anche molto, molto appassionati, con una
purezza che poi si perde...
Crede che
Moretti possa tornare in un nuovo romanzo? E se sì, a che tipo di storia sta
pensando?
Le divinità
della narrativa sono capricciose, io non parlo mai di quello che scrivo finché
non ho finito, perché sennò loro si arrabbiano e non me lo fanno finire... Ma
mi sa proprio che lo Staff del Gradisca tornerà.
C’è un
messaggio che ha voluto lanciare attraverso questo libro?
Non credo
sia molto importante che temi ho voluto metterci - tipo salvarsi l'anima a volte ti spezza il
cuore, oppure salvare un'idea delle nostre terre - e non è detto che qualcuno ce li trovi
dentro. Penso che nelle storie che funzionano, i temi ce li mettono gli altri.
I libri appartengono a chi legge, non a chi li scrive...
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