di Fabio Gaudiosi
È appena terminato l’evento organizzato dal Club del Giallo
e dei Delitti di Carta. La
giornalista Laura Marinaro ha appena concluso di ripercorrere tutte le tappe
che hanno caratterizzato il caso di Yara Gambirasio, che lei seguì da vicino e
su cui ha scritto un libro (Yara –
Autopsia di un’indagine, edito da Mursia). Lei è ancora emozionata, io
ancora turbato, dopo aver sentito una storia che custodivo, timida, nei ricordi
di un’adolescenza ormai passata. Ci sediamo, mentre fuori si sente il rumore di
un vento incessante.
Laura, in un
caso di cronaca di questo tipo, quali emozioni prova la giornalista? C’è un
distacco tra la Laura Marinaro giornalista e la Laura Marinaro persona?
“Sicuramente c’è bisogno del distacco, però questo è
stato un caso che senz’altro mi ha toccato tantissimo da dentro, vuoi come
mamma ma anche come professionista. Ho cercato di esorcizzare un po’ proprio
grazie al lavoro di giornalista rispetto a sentimenti che se è vero che non
devono entrare, non sempre si riesce a scacciare del tutto. È per questo che
abbiamo deciso di concentrarci anche nel libro sul profilo della vittima”.
In questi casi
per la giornalista far emergere la verità è più una forma di responsabilità o
più un bisogno? Si ha proprio un senso di giustizia?
“Sì, il senso di giustizia è preminente. E ti porta a
fare di tutto per essere sempre sul pezzo: ad esempio ho voluto ripercorrere
alcune testimonianze, risentendo le persone, ovviamente non tanto per
convincermi ‒ noi non dobbiamo essere per una delle parti ‒ però sicuramente
per raccontare i fatti così per come sono avvenuti. La voglia nella mia
carriera è sempre stata quella di cercare di arrivare a una verità, in tutti i
casi, anche in quelli in cui ad esempio c’è una confessione: anche questa deve
essere in qualche modo supportata scientificamente. Ho sempre creduto che se si
arriva ad una sentenza è perché davvero si deve dare una risposta di giustizia.
Tra l’altro è stato un caso che dal punto di vista professionale mi ha fatto
crescere tantissimo”.
Così importante
da portarla a scrivere un libro…
“Certo, tra l’altro la genesi di questo testo è
incredibile. Io non avevo pensato di scrivere un libro su Yara, proprio perché
è difficile approcciarsi a un caso del genere. Quando ho fatto il master con
Roberta Bruzzone è stata proprio lei a chiedermi di scrivere insieme e io ho
accettato. Sono andata a recuperare tutte le trascrizioni del processo e così è
iniziata una collaborazione tra l’altro anche molto stimolante: attraverso la
dottoressa Bruzzone abbiamo potuto leggere gli atti con gli occhi di un’esperta”.
Quanto è
importante invece il processo nella narrazione di un’inchiesta?
“Il processo è determinante, in Italia secondo il CPP
è nel processo che si forma la prova. Se è vero che in questo caso si partiva
da una prova regina, è stato fondamentale il dibattimento, proprio perché
abbiamo sentito tanti consulenti, esimi scienziati. Udienze che erano quasi
lezioni di genetica, di entomologia, di botanica. Si è avuta proprio la
percezione che la prova si è formata nel corso del processo di primo e di
secondo grado. In generale è stata un’indagine che nelle sue modalità ha avuto
riconoscimenti internazionali, pensi che è stata studiata e premiata dalla FBI.
Ha rappresentato un unicum, proprio perché si partiva da una traccia e si è
arrivati a un soggetto: non avevamo sospettati in partenza”.
Qual è
l’atteggiamento di una giornalista che deve scrivere di un indagato le cui
prove, seppur evidenti, non risultano ancora evidenti?
“L’atteggiamento è sempre quello di dare spazio a
tutte le parti. Soprattutto in fase di indagine quello che si sa può essere
interessante ma non va enfatizzato se non hai dei riscontri”.
Come
coordinarsi quindi con la polizia per garantire un’adeguata collaborazione?
“In questo caso, nella prima fase, quando si dovette
cercare Yara, il nostro lavoro è stato molto importante: coinvolgere i giornali
e i media è stato necessario. Nella fase delle indagini invece c’è stato un
grande scambio di informazioni: ci siamo spesso confrontati sugli atti,
onestamente prima di scriverne volevo sentire sempre la fonte”.
C’è stata una
ricerca anche sulla personalità dell’assassino?
“Sì, volevo capire che tipo era, come viveva. Nel
libro, ad esempio, racconto che sono andata a sentire dei vicini di casa di
Bossetti di quando era ragazzo, poiché mi avevano raccontato di alcuni episodi
molto particolari; di alcuni ho scritto, di altri no poiché non ho potuto
accertarli. In generale se n’è parlato e discusso tanto, è stato un caso
delicato anche per questo: penso alla sorella che aveva inventato di essere
stata picchiata ad esempio”.
È finita l’intervista. Ci alziamo e ci salutiamo. Uscendo
dal palazzo, ho la sensazione che faccia più freddo del solito. Tira un vento
gelido, quello che ti entra nelle ossa e ti fa piegare le gambe. Eppure proprio
oggi non c’era bisogno del vento per farmi sentire così: riascoltare la vicenda
di Yara, soprattutto quando a raccontarla sono fonti che hanno seguito il caso
direttamente, già basta per farti raggelare il sangue. Vedo una panchina e mi
siedo: penso a quella bambina, morta di stenti, abbandonata in una fredda notte
di novembre in mezzo al nulla. Alla sua mano che stringeva, forte, un filo
d’erba, al momento dell’ultimo respiro. Un brivido mi scorre su tutta la pelle,
questa volta il vento non c’entra proprio niente. Mi rialzo e mi incammino
verso casa. Le mani in tasca e lo sguardo, fisso, a terra. Sarà che oggi Yara
avrebbe avuto la mia età, sarà che voglio porgere un
segno di omaggio alla vittima, sarà che io un mondo che permette l’omicidio di
una bambina di tredici anni non lo accetto, io oggi questo sguardo non lo
alzo. Si chiama dignità. Si chiama rispetto.
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