Giulia Cecchettin, quel sorriso divenuto un simbolo. Il faro della speranza contro la violenza sulle donne. Allert! Come può esserci amore in un omicidio?

 


I media descrivono l’assassino “per amore” come un mostro, ma è davvero questa la verità? Seppur dolorosa, è necessaria la consapevolezza che queste tragedie sono umane e gli uomini che compiono questi atti sono umani e non sono malati, sono “figli sani del patriarcato”. Una cultura machista, l’insegnamento della violenza e della sopraffazione attecchiscono e generano danni in qualsiasi contesto sociale, in qualsiasi uomo…

Di Gaia Cimbalo

Come può una giovane donna la cui vita è stata strappata troppo presto, vittima di un uomo e della cultura dello stupro, diventare un faro di speranza? È di questo che bisogna parlare oggi, come anche dal male si può imparare, per fare in modo che questi fatti terribili non succedano mai più.

Giulia aveva 22 anni, prossima alla laurea in Ingegneria Biomedica, piena di vita e di passione, avrebbe entro poco cominciato la scuola comics di Reggio Emilia perché amava disegnare e sognava di fare la fumettista. Una ragazza con progetti e ambizioni che ormai rimarranno irrealizzati. Un destino, il suo, come quello di tante altre donne che hanno scelto di autodeterminarsi scatenando per questo, in quegli uomini che avrebbero dovuto amarle, reazioni violente spesso fatali.

Giulia Cecchettin e Filippo Turetta erano stati insieme per un anno e si erano lasciati nell’agosto del 2023, ma lui non aveva accettato la fine della relazione, era diventato geloso, possessivo, e teneva la ragazza legata a sé tramite ricatti morali, facendo leva sulla bontà di lei. I due, dunque, erano ancora in buoni rapporti e continuavano ad uscire e studiare insieme.

La sera in cui entrambi scompaiono, l’11 novembre del 2023, erano andati insieme al centro commerciale di Nave da Vero perché Giulia cercava delle scarpe per la laurea e avevano cenato insieme. Poi, non si hanno più notizie. Il giorno dopo alle 13 circa il padre di Giulia, Gino Cecchettin, effettua la denuncia per la scomparsa della figlia. Si succedono giorni di agonia, la sua foto, occhi grandi e sorriso dolce, circola sul web, nella speranza di buone notizie che non si avranno mai.

Il 17 novembre a Fossò vengono rinvenute delle ciocche di capelli e nove macchie di sangue: grazie alle telecamere presenti nelle vicinanze è possibile entrare in possesso del video dell’aggressione dove viene mostrata la colluttazione e il giovane caricare la ragazza nella macchina, sanguinante. Su Turetta cade addosso un mandato d’arresto europeo.

Il 18 novembre viene ritrovato il corpo esanime di Giulia nei pressi di lago Barcis, coperto da sacchi della spazzatura con numerosi oggetti al suo fianco, tra cui un libro per bambini “Anche i mostri si lavano i denti” e altri 20 reperti.

Alle 22:00 dello stesso giorno Filippo viene arrestato in Germania. La sua Punto nera ferma nella corsia d’emergenza attira la polizia per un regolare controllo che diviene una scoperta eclatante. Forse pensava davvero di fuggire e farla franca? Chi sa. Il ventunenne non oppone resistenza e si consegna alle autorità confessando subito il crimine commesso. Anche le parole con cui sceglie di farlo sono indicative dello stato di confusione in cui si trova, dell’abominio di cui è stato artefice e delle ragioni che lo hanno scatenato. Afferma infatti di “aver ucciso la sua ragazza”, nonostante questa non fosse più la realtà da tempo.

Condotto nel carcere di Halle, acconsente all’estradizione e viene portato in Italia con manette a mani e piedi, come da consuetudine in Germania, il 25 novembre, la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, e condotto al carcere di Montorio, a Verona.

Il primo dicembre l’esame autoptico, durato 14 ore, rileva più di 20 lesioni sul corpo della fanciulla dagli occhi dolci e dal sorriso vitale, alcune superficiali, da difesa, come quelle sui palmi delle mani, altre più profonde. Il colpo mortale è sul collo che sembra sferrato da dietro o lateralmente e recide l’arteria basilare. Giulia muore a causa di uno shock emorragico tra le 23:40 e le 23:50 dell’11 novembre, uccisa da colui che affermava di amarla e che si sarebbe ucciso senza di lei.

I capi di accusa per Turetta sono omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione, crudeltà, efferatezza, sequestro di persona, occultamento di cadavere e stalking.

Il 23 settembre 2024 si tiene il processo, il rito immediato disposto dopo la rinuncia all’udienza preliminare davanti al Gup, che si sarebbe dovuta tenere il 16 luglio.

Quello di Giulia, sfortunatamente non è stato né il primo né l’ultimo femminicidio avvenuto in Italia, ma la sua morte ha generato uno sdegno e un dolore mai visto prima, un aumento delle chiamate al numero antiviolenza 1522, “l’effetto Giulia Cecchettin” e finalmente forse una maggiore consapevolezza della gravità del fenomeno che si sta consumando in Italia e nel mondo, la conseguenza di un’educazione e di una cultura machista, che sono impregnate di misoginia, così tanto che estrinsecarla è difficile, così come riconoscerla.

Gino Cecchettin nel suo libro “Cara Giulia, quello che ho imparato da mia figlia” riflette proprio su questo, su come egli stesso abbia dovuto fare un lavoro per ravvisare gli esempi negativi perpetrati nella sua famiglia, su quanto ognuno di noi debba esaminarsi, perché tutti figli della medesima cultura. Cultura che instilla determinate ideologie prima ancora di poterle identificare, che diventano inconsciamente parte di noi, senza poter riflettere su cosa sia giusto o sbagliato delle stesse. Un libro che è una lettera d’amore alla figlia scomparsa, la volontà di ricordarla non solo nella tragedia, ma anche in quello che è stata prima, per fare in modo che non si ricordi solo la sua morte, ma anche e soprattutto la sua vita, perché “l’effetto Giulia Cecchettin” si avveri realmente e da questa tragedia possa germogliare un cambiamento effettivo.

Dei cambiamenti concreti dopo il terribile evento sono avvenuti: il Parlamento italiano ha approvato all’unanimità un pacchetto per rafforzare le leggi esistenti a tutela delle donne e il ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara ha annunciato un progetto educativo nelle scuole per contrastare la violenza di genere.

Loredana Lipperini e Michela Murgia, nel libro “L’ho uccisa perché l’amavo. Falso!” illustrano come spessissimo questi tipi di delitti vengano descritti erroneamente, parlando di raptus, depressione, disperazione, vaneggiando dell’amore che l’omicida provava per la vittima. Le narrazioni delle cronache cercano di addurre il delitto ad una patologia dell’uomo, malato d’amore. Ma come può esserci amore in un omicidio? E perché questa narrazione attecchisce e non crea sdegno? Perché è ancora accettabile narrare in questi termini un omicidio, perlopiù molto spesso efferato?

I moventi del femminicidio sono sempre gli stessi: abbandono e possesso. L’incapacità di accettare il rifiuto e l’allontanamento, se non mia di nessun altro, l’inevitabile reificazione della donna, un mero oggetto da possedere e non una persona da amare. Il movente non può essere l’abbandono o il tradimento, ci dicono Murgia e Lipperini nel libro, questa è la versione dell’assassino, il vero movente è la cultura della sopraffazione e possesso, una cultura che assegna un minor valore umano e un ruolo sociale subordinato alla donna.

Le cronache e i media quando parlano di questi omicidi descrivono l’assassino come un mostro, ma è davvero questa la verità? La pericolosità di trattare un tale fenomeno in questi termini è quella di allontanare il calice, di renderlo un evento lontanissimo, inumano, che non ci riguarderà mai. Seppur dolorosa, è necessaria la consapevolezza che queste tragedie ci riguardano e sono umane, gli uomini che compiono questi atti sono umani e non sono malati, sono “figli sani del patriarcato”. Una cultura machista, l’insegnamento della violenza e della sopraffazione si diffondono e attecchiscono anche dove lo crederemmo inimmaginabile, in qualsiasi contesto sociale, in qualsiasi uomo. Questo è un male che serpeggia in ognuno di noi, in tutti quei comportamenti che presi singolarmente non ci allarmano ma che messi insieme spesso conducono a tragici epiloghi. I colpevoli non sono solo coloro che uccidono la vittima, ma anche una cultura dello stupro che avalla comportamenti possessivi e violenti e che non li condanna, che esorta gli uomini alla violenza, al possesso, alla soppressione delle emozioni e li rende incapaci di stare in maniera sana nelle relazioni.                                          

Filippo Turetta, infatti, con la sua timidezza e introversione, non rientra certamente nell’identikit medio del femminicida, nello stereotipo dell’uomo geloso e controllante; eppure, anche lui è rimasto vittima del mondo in cui è cresciuto.

Ora, dopo questa tragica istanza, si parla di più del fenomeno, ma ancora in maniera non abbastanza consapevole e soprattutto cercando di intervenire sulle conseguenze e non sulle cause: denunciare, scegliere in maniera accorta il partener, non andare all’ultimo incontro, escamotage che fanno ricadere la responsabilità sulle vittime e non risolvono nulla, sono palliativi.

Una reale risoluzione ci sarà quando il problema sarà trattato alla radice, per eradicare passo dopo passo gli stereotipi e le credenze con cui siamo cresciuti e vedere finalmente un mondo in cui potremmo essere alla pari, specchiarci negli occhi dell’altro e vederci un proprio simile, un amante e non un potenziale carnefice.

 

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