Quesiti complessi e intriganti nel libro “Visioni a Sud” di Lucia Di Girolamo

 


Il volume inizia descrivendo una delle scene di apertura di Ammore e malavita (Manetti Bros.), in cui durante un tour a Scampia una turista statunitense dopo aver subito uno scippo si scopre felice perché secondo lei ha vissuto “l’esperienza turistica definitiva”. Come si è potuti arrivare a questo?


Di Roberta Verde

 

Visioni a Sud. La narrazione audiovisiva della Campania: sguardi turistici e idee di sostenibilità (Liguori Editore, 2024) è l’ultima pubblicazione di Lucia Di Girolamo, ricercatrice di Storia del cinema, fotografia e televisione presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”. Il libro offre una lettura insolita e intelligente delle produzioni cinematografiche e televisive che negli ultimi due decenni hanno portato il nostro territorio alla ribalta, indagandone temi e figure ricorrenti e cogliendo i punti di contatto fra le loro narrazioni e l’immaginario turistico che si è creato attorno alla nostra regione. È un testo denso che richiede una lettura attenta e che sollecita continuamente il lettore ponendolo di fronte a quesiti complessi ma, allo stesso tempo, estremamente intriganti.

 

Lucia, come è nato questo volume?

Questo mio lavoro è legato al progetto Campania Landtelling (responsabile professoressa Elena Porciani) che si occupa delle narrazioni letterarie e audiovisive della Campania. A esso è collegato il sito www.campanialandtelling.it, ideato per la promozione del turismo culturale legato, appunto, alle location di opere letterarie e/o audiovisive. Insieme a Francesco Sielo, giovane ricercatore di Letteratura Italiana contemporanea dell’Università Vanvitelli, abbiamo dato vita al Progetto d’Ateneo E.C.O. - Environmental Campania Observatory, progetto di matrice ecocritica che si è unito al Campania Landtelling (entrambi i progetti sono legati al DiLBeC - Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell’Università “Luigi Vanvitelli”). Il mio testo origina da questa unione. Visoni a Sud non ha la pretesa di essere un testo che esaurisce l’argomento, ma rappresenta l’inizio di un discorso che, secondo me, andrebbe fatto anche con i new media. Il volume rende comunque conto della complessità del nostro territorio, un territorio che è difficile da afferrare; ho cercato di far riflettere su come si cerchi continuamente di superare questo stereotipo della cartolina, soprattutto attraverso la descrizione di comunità sostenibili in quanto comunità “collaborative”. Ovviamente la distruzione di vecchi stereotipi ne origina altri. Tutto il lavoro che è stato fatto attraverso la narrazione audiovisiva contemporanea è un lavoro anche in parte inconsapevole; questa ricaduta turistica sul territorio nessuna l’aveva prevista, almeno nelle imponenti cifre che caratterizzano il fenomeno dell’overtourism. Va comunque evidenziato che Napoli e la Campania hanno superato l’appiattimento stereotipizzato e vengono attualmente descritte come un territorio più complesso, attraversabile, di “esperienze”.

 

Il suo volume inizia con la descrizione di una delle scene di apertura di Ammore e malavita (Manetti Bros., 2017), in cui durante un tour a Scampia alla ricerca dei set di Gomorra - La serie (2014-2021), una turista statunitense vittima di uno scippo si scopre felice perché secondo la sua visione ha vissuto “l’esperienza turistica definitiva”. Ovviamente la scena è un’estremizzazione, ma come si è arrivati a questo?

Premetto che i sociologi non concordano con questa tesi. Sostanzialmente credo che Gomorra abbia avuto un peso importante nella comunicazione di un determinato tipo di territorio. In un certo senso, Gomorra ha teatralizzato la criminalità, facendo perdere la lucidità su certi fenomeni. Non mi riferisco al libro di Saviano, sul quale si aprirebbe un altro discorso, ma alla serie, un prodotto sicuramente di alto livello che ci ha portato alla ribalta internazionale. Il dramma e la tragedia del territorio che sono dietro la finzione di Gomorra sono stati completamente svuotati: è diventato quindi tutto un gioco. Va però ricordato che, nella nostra tradizione culturale, sono presenti diverse opere che propongono questi personaggi che vivono d’illegalità come figure tragiche, talvolta come dei veri e propri “eroi”; basta pensare all’innegabile fascino che caratterizza la figura di Don Antonio Barracano, protagonista de Il sindaco del Rione Sanità (commedia in tre atti scritta da Eduardo De Filippo nel 1960 ndr).

 

In questo periodo le Vele di Scampia sono tornate tristemente alla ribalta in tutta la loro tragica fatiscenza…

Ormai le Vele sono diventate un’icona: progettate con l’idea di riprodurre un’imbarcazione alla fine hanno finito per assumere la fisionomia del Vesuvio, che ha un valore distruttivo. Il racconto giornalistico propone sempre la medesima visione di un luogo di spazzatura, dov’è difficile vivere… per questo tutto il lavoro fatto da queste serie televisive è stato, da un certo punto di vista, importante.

 

Mi ha un po’ meravigliato l’assenza di riflessioni attorno a Un posto al sole, prodotto televisivo che lavora quotidianamente sulla città.

Ho dovuto fare una scelta e dedicarmi solo alle serie tv e non ai serial. Va detto che i telespettatori identificano Un posto al sole con Raffaele Giordano, il portiere (una figura “mitica” anche se un po’ troppo macchiettistica, che si aggiunge alla lunga schiera di portieri della nostra tradizione; pensiamo a Raffaele di Questi fantasmi! di Eduardo o ai tre portieri del film diretto da Luciano De Crescenzo Così parlò Bellavista). Il portiere rappresenta la voce collettiva, ma è anche il tramite tra spazio pubblico e spazio privato. È una figura “porosa”. Non dimentichiamo però che la narrazione di Un posto al sole è confinata a Posillipo… ora sta scendendo un po’ verso il centro, sempre raccontato come problematico e i problemi delle persone che lo abitano vengono sempre risolti gli abitanti di questa “fortezza” come Giulia, che sta spingendo Rosa e Clara all’emancipazione.


Nel volume fa un riferimento ai tiktoker e al loro racconto della città. Il tempo della loro narrazione è breve (molto spesso di pochi secondi) e dà una prospettiva molto frammentaria. È una modalità possibile per raccontare Napoli che è un universo così stratificato e complesso?

Questo è un fenomeno che non riguarda solo Napoli ma sta diventando un modo molto comune di raccontare le città. La frammentarietà corrisponde a questa complessità. La contemporaneità della narrazione audiovisiva presenta le stesse dinamiche, le stesse caratteristiche di quella del cinema delle origini… in sostanza si sovrappongono. La frammentarietà è una delle cifre del postmoderno e Napoli è a pieno titolo una città postmoderna che, tra le altre cose, cita continuamente sé stessa (altra caratteristica del postmoderno). La narrazione dei tiktoker è perfettamente confacente all’anima di Napoli proprio perché all’interno di questa complessità, attraverso i nuovi media, ciascun utente può trovare la propria versione della città. E si crea poi un vortice spazio-temporale in cui realtà e finizione si sovrappongono e l’una diventa l’altra. Secondo me è proprio TikTok l’ultima forma di narrazione adatta a Napoli, che ne restituisce la complessità per immagini fugaci, per flash. L’idea di TikTok è poi molto simile a quella di Benjamin nella sua analisi del flâneur (termine reso celebre dal poeta Baudelaire nel 1850: identifica l’uomo che gira per la città oziosamente, sperimentando un sempre nuovo e inatteso rapporto con il paesaggio che lo circonda, ndr): quando si scrollano i reel si vaga in un mondo virtuale dove arrivano continuamente shock visivi… cosa che capitava al flâneur nel suo vagabondare per la città moderna.

 

Come si può definire il cineturismo?

Beh, non è semplice dare una definizione unica… è un trovare sé stessi nel territorio attraverso la narrazione audiovisiva. Questo è il cardine del cineturismo: ciascuno ritrova sé stesso rimettendo in gioco immaginari vari che sono quelli tradizionali, quelli della narrazione audiovisiva e quelli personali.

 

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