Maurizio de Giovanni incanta l'ultima serata del Festival del Giallo

 


Di Claudia Siano

Le luci si accendono, da Cenacolo Belvedere si vede tutta Napoli illuminata, ci sono trecento persone in attesa di Maurizio de Giovanni, che chiude la quarta edizione del Festival del Giallo città di Napoli. Quest’anno il suo spettacolo è dedicato al grande Attilio Veraldi e si intitola “Nella mente dell’assassino”. Tre le storie in cui l’autore si inserisce. L’anno scorso Maurizio de Giovanni ha parlato di tre volti della violenza di genere, quest’anno ci fa entrare nella mente di tre assassini. Lo fa con la delicatezza che lo contraddistingue, lo fa con le parole giuste, lui che le sa scegliere meglio di tutti. Vi provo a raccontare brevemente le storie che ha scritto, passando dalla prima persona usata dall’autore alla terza. In calce ad ogni storia, le frasi finali usate da Maurizio de Giovanni.

La prima storia parla di una «belva ormai sazia», di un uomo, un vecchio, che ha fatto il marinaio, che qualche piacere nella vita se l’è tolto, che ha fatto anche il macellaio e che sa dove si trovano i coltelli. E poi una donna lo cattura, lui si incanta a vederla camminare per strada. Vestita di stracci ma per lui una principessa. Lui la voleva, lei «stava in mano a un povero miserabile disoccupato». Spende tanti soldi per lei ma ad un certo punto arriva ad una consapevolezza, non può più elargire i suoi guadagni inutilmente. Tutto si paga nella sua mente, lei gli deve ancora venti euro. E allora la chiude a chiave in casa, le una botta in testa e si sveglia con il nastro adesivo sulla bocca. E poi il vecchio dalle ossa dure si ritrova contornato dal sangue.

«Dovevi capire e ho tirato fuori la tua carne facile e mentre il sangue mi cercava fino alla porta, mi sono messo a fumare e guardarti morire come una belva che ha avuto quello che voleva, ci penso mentre sento la vita che mi abbandona. Ci penso. Mi dispiace per l’amore, per i fiori, per gli alberi, per le risate dei bambini».

 

Nella seconda storia, la voce è quella di un bambino, gli occhi sono quelli di Lorenzo, ha «otto anni e fa la terza», e la persona che più ama al mondo è sua mamma. Ha una bellissima famiglia, suo papà lavora nei camion e porta i soldi a casa anche se spesso è lontano. Lorenzo adora salire sul camion del papà. La mamma non vuole restare da sola, l’ha avuto quando era piccola, non ha molte amiche e qualche volta le si riempiono gli occhi di lacrime. Sua mamma quando è triste prende delle medicine, il papà di Lorenzo non la capisce, vorrebbe tranquillità quando torna a casa. Sua mamma soffre e Lorenzo percepisce che la vita le va stretta, che odia il paese perché nessuno le dà confidenza perché viene da fuori. Sua mamma è la più giovane e bella per Lorenzo, se ne accorge dagli occhi dei padri e dalle occhiatacce delle madri. Gianluca, un compagno di classe, si ferma a parlare con la sua mamma. A Lorenzo non piace molto quando gli uomini si avvicinano alla mamma e «se qualcuno può farla ridere può essere solo il suo papà». Lorenzo però sente il peso delle parole di suo padre, il quale confida che lui faccia l’uomo di casa in sua assenza. La mamma di Lorenzo ricomincia a sorridere. Un giorno chiede a Lorenzo di andare in camera e lo invita a non uscire, ma vede il papà di Gianluca sul divano. Si baciano.

«Pensavo che le mamme potessero baciarsi solo con i papà». A Lorenzo fa piacere sentirla ridere, poi comincia ad avere paura di essere abbandonato. Vuole parlare con suo padre, lo dice alla mamma e le tremano le mani, invita il figlio a farsi gli affari propri. Teme di essere ammazzata. «Il papà sarebbe tornato il giorno seguente, va dal figlio, adesso sorride, le tremano le mani e ha finito le pillole. Mi ama tanto la mia mamma. E tira fuori una striscia di plastica. Io la amo tanto. È la persona che amo di più al mondo».

 

La terza storia è quella che ha visto parlare la voce di un uomo che afferma di non aver fatto niente. Niente per cui non sia stato costretto. Racconta di come conosce la moglie, da ragazzo, entrambi ricchi di sogni e speranze, lei era quella giusta per lui. Lei non guadagnava quanto lui ma contavano i suoi occhi, lui notava sempre come lei lo guardava, lo faceva con fiducia, amore e dolcezza. Insomma, lei non gli faceva mai mancare il piatto caldo e la sera si addormentava insieme a lui. A loro non era stato mai regalato niente. Brancolavano, ce la facevano, fino alla crisi. Succede che lui si ritrova senza lavoro. E la cena doveva prepararla lui. Poi non lo hanno pagato più.

«Senza guadagnare il prestigio del lavoro un uomo a che serve».

Giorno dopo giorno, cambiava quell’espressione sul volto di lei. L’uomo iniziava a sentire la sua pietà. Gliele stirava ancora le cose, lui nel mentre aveva cominciato pure a bere. Aveva perso insieme soldi e prestigio. Aveva cercato un nuovo lavoro, «ma a cinquant’ anni e la schiena spaccata non lo prendeva nessuno più». Sentiva la pietà. Pietà di lui, «dell’uomo che l’aveva mantenuta per tutta la vita». Un giorno aveva sbattuto la porta e questa azione lo faceva sentire meglio, «lo faceva sentire padrone in casa sua». Ma lei, in casa, per lui, doveva fare la moglie. Avrebbe preferito la paura o l’odio, ma non la pietà. Secondo lui, lei non provava amore per lui da tempo. Lei aveva pietà di lui, per lui.

«Io non ho fatto niente. Ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque al posto mio. Una donna non può avere pietà di un altro uomo. Uno che ha cresciuto un figlio, uno così non merita pietà, merita rispetto. Allora stamattina gliel’ ho cancellata dalla faccia la pietà, accoltellata. Almeno non ce l’ha più quell’ espressione. Io non ho fatto niente».

De Giovanni mostra le sfaccettature di una mente in preda alla rabbia, alla delusione per sé stessi, alla disperazione della miseria, all’insoddisfazione di una vita che non ha rispettato le aspettative. Nella prima storia si tratta di una reazione all’impotenza di possedere una donna, all’incapacità di accettare un rifiuto. Nella seconda storia, la voce è quella di Lorenzo, è l’unica delle tre dove non parla l’assassino, eppure si vede una madre che soffre, incapace di gestire un figlio, delusa dalla vita, sopraffatta da essa, sopraffatta da sé stessa. Nella terza storia emerge il fallimento di un uomo, che non è in grado di accettare che la moglie guadagni e lui no, che la moglie non gli metta più il piatto a tavola, e sceglie l’alcool, sceglie di sbatterle la porta in faccia per ripristinare il potere di avere un ruolo in casa sua. La soluzione che accomuna tutti? Scegliere per la vita di qualcun altro. Ma Maurizio non voleva parlare di questo, ha deciso di affrontare le piaghe esistenziali di coloro che commettono un omicidio, per provare a sensibilizzare su quanto il rispetto, la correttezza, la cura, l’accettazione della perdita del lavoro o di una donna sia qualcosa che fa parte della vita. Come fa a scegliere sempre le parole giuste? Ho avuto l’onore di chiederglielo in un’intervista, mi ha risposto «non sottovaluti la forza della disperazione». Ha riassunto tutto in sei parole.

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